di Santiago Gascó Altaba. Nell’intervento di domenica scorsa è stato trattato un esempio dell’infantilizzazione del pensiero a proposito della guerra tratto dal classico femminista Una stanza tutta per sé (1929) di Virginia Woolf. In seguito riporto un altro esempio simile, questa volta sul mondo lavorativo, tratto dalla stessa opera: «[…] avremmo potuto presagiare senza indebita sicurezza una vita piacevole e onorevole trascorsa al riparo di una delle professioni generosamente sovvenzionate. Avremmo potuto esplorare o scrivere; bighellonare per i luoghi venerabili della terra; sedere in contemplazione sui gradini del Partenone, o andare in ufficio alle dieci e tornare a casa comodamente alle quattro e mezza per scrivere della poesia» (Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé). Siamo di nuovo di fronte ad un pensiero illogico, magico, puerile, infantile. È evidente che Virginia Woolf, e come lei le consorelle, ignorano – oserei dire consapevolmente – le condizioni lavorative di quelli che per loro estraevano il carbone che scaldava le loro case o di quelli che raccoglievano quel tè che loro bevevano quando si davano gli appuntamenti nelle loro salette per scrivere i manifesti femministi. Virginia Woolf lascia palesemente chiara l’immagine che ha lei del lavoro maschile: “andare in ufficio alle dieci e tornare a casa comodamente alle quattro e mezza”. Solo pochi decenni prima circa 125.000 uomini erano morti, sotto un sole cocente, durante la costruzione del Canale di Suez in Egitto, che sarebbe servito, tra le altre cose, a trasportare più velocemente il tè che lei e le sue consorelle bevevano al riparo dal sole cocente, mentre si lagnavano della propria condizione.
Nell’immaginario di queste donne non esistevano i minatori, pescatori, carpentieri, guardiani notturni, tagliatori di ghiaccio, boscaioli, vigili del fuoco, addetti ai tetti, spazzacamini… Non c’erano per loro lavori usuranti, come i muratori, o pericolosi, come i trasportatori di polvere da sparo sulle navi, o disgustosi, come i derattizzatori, figure abituali e famose nell’Inghilterra vittoriana, che catturavano i ratti a mani nude, con l’aiuto di trappole o cani appositamente addestrati. È del 1926, appena due anni prima della scrittura del summenzionato testo, lo sciopero dei minatori, che condusse all’unico sciopero generale nella storia del Regno Unito. Circa due milioni di scioperanti, per i quali andare a lavorare alle dieci e tornare alle quattro era una chimera inimmaginabile. Nel 1920 nel Regno Unito circa 1 su 4 dei lavoratori era impiegato nell’industria di estrazione del carbone, ferro e altri minerali. Si tratta della stessa visione selettiva delle attuali politiche di quote nei Parlamenti e nei CdA. Le attuali promotrici di queste politiche, alla pari delle loro consorelle antesignane, ignorano l’esistenza di netturbini, minatori, manovali, fognaioli, ponteggiatori, falegnami, pulitori di vetri nei grattacieli, riparatori di tetti, fucinatori, formatori, tornitori, fresatori, boscaioli, pescatori, marinai, addetti alla raccolta spazzatura. In linea con lo stesso modo di pensare di Virginia Woolf, e a sostegno della legittimità delle proprie pretese creative alla pari degli uomini, la poetessa e scrittrice statunitense Sylvia Plath (1932-1963) sosteneva che “d’altra parte, la maggior parte dei poeti maschi non lavorano nelle miniere di carbone, […] in una giornata lavorativa di quindici ore” (in La grande menzogna del femminismo, p. 278).
Il femminismo che rinchiude le donne in una fortezza.
Le donne vittoriane volevano “bighellonare” in un mondo spesso pericoloso, colpito da guerre, catastrofi e carestie, come quelle ricorrenti del Bengala, che contavano le sue vittime per milioni. Ma loro non lo sapevano, perché loro, sempre nelle loro comode salette del tè al calduccio, se ne infischiavano. Volevano “esplorare” il mondo, indifferenti al fatto che molti esploratori nella realtà storica non erano mai ritornati. Nel loro immaginario gli uomini se la spassavano nel fango delle trincee, esploravano il mondo in gite turistiche e oziavano al lavoro in ufficio. Allo stesso modo, lo si è visto, mentre Simone de Beauvoir trascorreva le giornate nei caffè, a lavorare a Radio Vichy e a scrivere “la Bibbia del femminismo”, Il secondo sesso, l’accusa più strutturata contro i privilegi dell’universo maschile, oltre un milione di uomini francesi erano reclutati e trasferiti contro la loro volontà per lavorare nella Germania nazista fino alla fine della guerra, in forza del “Servizio di Lavoro Obbligatorio” (in francese, Service du travail obligatoire o STO), da cui le donne erano ovviamente esentate. Donne che si divertono e si lagnano, uomini costretti al lavoro forzato. La narrazione femminista è riuscita a far diventare il sacrificio degli uomini morti in mare aperto, sulle impalcature, all’interno delle gallerie sotto terra o sui campi di battaglia una sorta di privilegio. Ha capovolto il senso logico delle cose, ha chiamato l’orrore privilegio e il privilegio orrore. Le femministe si sono dichiarate vittime della brezza e hanno deriso le vittime maschili dinanzi all’uragano. Sotto questa visione del mondo è naturale che gli uomini, esseri privilegiati nel mondo di Gardaland, scrivessero poesie.
Vorrei concludere con un ultima riflessione sul libro di Virginia Woolf. La narrazione femminista ha stabilito che lungo la Storia la donna è stata “schiava” dell’uomo. La definizione non è mia, il termine “schiava” trova un uso ricorrente in tutta la letteratura storica femminista, da John Stuart Mill fino a Simone de Beauvoir e oltre. D’altra parte ho già espresso l’idea che “il femminismo non può essere spiegato se escludiamo la biologia dalla spiegazione”. Dunque, se voi foste “schiavi”, potendo richiedere, cosa richiedereste? Virginia Woolf, e con lei tutto il movimento femminista che ha assunto questo testo come apologia delle loro richieste, non chiedono libertà, chiedono “soldi” e “una stanza”, chiedono sicurezza. Per la precisione, “una donna deve avere soldi e una stanza tutta per sé per poter scrivere”. Sicurezza economica e la sicurezza fisica che fornisce una stanza. Il titolo del libro, innalzato a motto del movimento femminista, non poteva essere più esplicito: Una stanza tutta per sé. Questa richiesta asimmetrica tra libertà e sicurezza può essere spiegata addebitandola unicamente alle femministe? Può essere spiegata escludendo la biologia? Io penso di no. In linea di massima l’uomo è costretto a desiderare la libertà perché non c’è nessuno lì fuori disposto a sostituirlo in caso di guai, a difenderlo e a morire al suo posto. L’uomo è costretto ad essere libero. Le donne crescono e sono educate diversamente, almeno la maggior parte di loro. La donna si crede nel diritto di pretendere un mondo sicuro che le deve essere procurato dall’uomo, fornitore e protettore. La donna predilige la sicurezza sulla libertà, motivo che spiega perché nella prima opera riconosciuta della storiografia femminista le donne non sono libere ma rinchiuse, al sicuro, in una città fortificata: “Per questo motivo la capostipite femminista Christine de Pizan non si lamenta mai di essere ʻconfinataʼ (si lamenta della diversa educazione) e colloca le donne del suo romanzo, La Città delle Dame (1405), in una ʻfortezzaʼ, recluse, mica saltellanti libere nelle foreste, per la gioia e il piacere dei lupi.” (La grande menzogna del femminismo, p. 440). Questa preferenza femminile per la sicurezza, a mio avviso innata e ricercata dalle donne, il femminismo la fa diventare una pretesa esacerbata.
I più sfortunati sono stati scacciati dalla storiografia di genere.
Inevitabilmente la sicurezza voluta si riallaccia al tema del mondo lavorativo snobbato da Virginia Woolf. Chi costruisce la stanza? Chi costruisce la città fortificata? Chi deve costruire la stanza? Chi deve costruire la città fortificata? Che necessità ha Virginia Woolf di gridare ai quattro venti che vuole una stanza? Perché non se la costruisce da sé? Sarebbe bastato a Virginia Woolf costruire la stanza da sé, e alle femministe perseguire, costruire e raggiungere da sé i loro desideri, senza necessità di fare alcun pandemonio. Una richiesta simile, la richiesta di farsi dotare/costruire una stanza per diritto di nascita, non può che sembrare assurda a qualsiasi uomo. Ma Virginia Woolf, le femministe e il mondo non funzionano così. Loro non gridano ai quattro venti, loro gridano agli uomini, perché gli uomini realizzino i loro sogni, perché costruiscano loro la stanza, il palazzo, la città fortificata, e forniscano loro protezione e sicurezza. Sicurezza che molto spesso gli uomini decidono di fornire liberamente (liberamente? sempre?), anche a scapito della propria sicurezza. La completa indifferenza che mostra Virginia Woolf per la sofferenza maschile, in guerra o al lavoro, è la logica conseguenza di una concezione gerarchica e malata del mondo, non scritta ma tangibile, dove una parte dell’umanità s’arroga diritti inderogabili sull’altra. Obblighi maschili dunque, e per questo non meritevoli né di riconoscimenti né di compatimenti.
Siamo di fronte a una visione gerarchica stucchevole, non scritta ma tangibile, sui diritti e sui doveri delle donne e degli uomini, relativi alla costruzione del mondo, il mantenimento e la protezione, diritti che le prime si arrogano sui secondi, e che affiorano di continuo nelle richieste durante i processi di separazione coniugale. Una visione che purtroppo non appartiene in esclusiva a Virginia Woolf, ma a moltissime donne e a tutta la storiografia di genere: “…la creazione, la costruzione, la difesa, la sopravvivenza, non appartengono al mondo della donna né alla narrazione femminista. In questa narrazione, la donna si trova a vivere in un mondo già costruito, già ʻfattoʼ: il raccolto è già raccolto, i terreni dissodati, le strade battute, le spezie arrivate dal Lontano Oriente, i ponti innalzati, gli stati costituiti, le case fabbricate, le cattedrali erette, le nazioni difese, le reti idrauliche e i canali di irrigazione costruiti. I bisogni primari, la fame, la sete, il freddo, le difficoltà fisiche, le condizioni lavorative e i rischi di infortunio e di morte sempre in agguato in molti mestieri, sono per lo più argomenti trascurati, sorvolati, quasi non riguardassero le donne […]. Il nullo valore attribuito al mondo storico delle azioni è il motivo principale per cui i paria della società, i più sfortunati, i monchi, i mutilati, i ciechi mendicati, che erano in molti casi il risultato di un mondo in costruzione, di esplorazioni, guerre, lotte e corvée, sono stati scacciati dalla storiografia di genere” (La grande menzogna del femminismo, pp. 112-113).