di Santiago Gascó Altaba. Virginia Woolf è una femminista sui generis, più scrittrice che femminista. Morta nel 1941, appartiene alla prima ondata femminista, quella che in molti si ostinano ad attribuire il marchio di femminismo “buono”. Simone de Beauvoir farà da spartiacque, dopo di lei arriveranno la seconda e la terza ondata, il femminismo “deviato”, “radicale” o “cattivo”. Fu attivista all’interno dei movimenti femministi per il suffragio delle donne. In linea con lo standard delle sue consorelle, fu borghese e benestante. E in linea con il modo di pensare della maggior parte delle proprie coetanee femministe, attraverso i suoi scritti esternò la sua condizione di privilegiata, elitista, classista, razzista e antisemita. La sicurezza economica non le garantì una vita serena, al contrario: un quadro di crisi depressive, ricoveri psichiatrici, esaurimenti nervosi e forti sbalzi d’umore. Due tentativi di suicidio e un terzo riuscito, appunto nel 1941. In vita raggiunse molta popolarità negli anni ’30, ma dopo la Seconda Guerra Mondiale la sua celebrità declinò. Fu riscoperta dal movimento femminista negli ’70, che l’aiutò a riacquistare la celebrità di cui gode tutt’oggi, grazie a un piccolo saggio intitolato Una stanza tutta per sé, scritto nel 1929, uno dei testi più citati dal movimento femminista, dove Virginia espone le difficoltà delle donne. In questo e nell’intervento di domenica prossima voglio parlare proprio di lei.
Ho già ribadito nei miei scritti l’importanza di definire con precisione cos’è il femminismo, per capire e analizzare il fenomeno. Il femminismo non è il riconoscimento che le donne hanno problemi specifici. Il femminismo è l’affermazione che questi problemi siano immensi rispetto a quelli maschili, anzi per molte addirittura sono gli unici esistenti, e sono causati dagli uomini, all’interno di un sistema denominato “patriarcato”, tanto da poter affermare pacificamente che il problema della donna è l’uomo. In questa forma mentis femminista l’uomo non è soltanto prevaricatore e oppressore, ma è il fruitore di una serie di vantaggi illeciti ottenuti sulle spalle della donna sfruttata e schiavizzata. L’uomo è il beneficiario di una qualità di vita di gran lunga superiore estorta ingiustamente all’universo femminile. Le attuali quote per legge nei posti dirigenziali ed elitari sono la contropartita rispetto a questo modo di pensare. La sofferenza maschile non esiste, non può esistere, altrimenti significherebbe entrare in contraddizione con la propria fede; per questo è dunque censurata, segno di una mancanza di empatia terrificante. Di conseguenza l’uomo, che non soffre, vive in un perenne paradiso, una specie di Gardaland costruita sulle spalle delle donne. In seguito due esempi, uno sulla guerra e l’altro sul mondo lavorativo (nell’intervento di domenica prossima), tratti da Una stanza tutta per sé.
A proposito del privilegio dell’uomo, dice Virginia Woolf: “Nello stesso periodo, dall’altra parte dell’Europa, c’era un giovane che viveva liberamente con questa zingara o quella nobildonna; andava in guerra; raccoglieva, senza intralci né censure, tutta quella variegata esperienza della vita umana di cui si giovò così splendidamente poi, quando decise di scrivere i suoi romanzi. Se Tolstoi fosse vissuto in una canonica, in isolamento con una donna sposata, ʻtagliato fuori da ciò che si chiama il mondoʼ, per quanto edificante la sua lezione morale, non avrebbe forse potuto scrivere Guerra e pace” (Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé). Senza andare a sindacare sulla legittimità di quanto affermato – uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi, Immanuel Kant, non si allontanò mai nel corso della sua vita dalla Prussia Orientale, rimanendo sempre intorno a Königsberg, la sua città natia, e ciò non gli impedì di scrivere capolavori filosofici –, è evidente che per Virginia Wolf “andare in guerra” è una specie di fortuna che avevano gli uomini per arricchire quella “variegata esperienza” che avrebbe aiutato loro a diventare scrittori. E non credo di sbagliare, per il senso che si desume dal testo, che nella mente dell’autrice altre fortunate “variagate esperienze” potessero essere dover emigrare attraversando l’Oceano, andare in carcere o lavorare in miniera.
A Virginia Woolf non sembra importare il fatto che una percentuale altissima di quei fortunati non tornasse più dalla guerra, né il fatto che altri di quei fortunati tornassero mutilati, paralizzati o traumatizzati. Né sembrano importare le condizioni di vita in guerra, le sofferenze nelle trincee dei soldati sommersi nel fango, bersagliati dal fuoco nemico, consapevoli delle poche possibilità di sopravvivere a un intervento di amputazione, tra l’altro spesso senza anestesia. Secondo lei sarebbe una “variegata esperienza” vedere il processo morboso del proprio arto che va in cancrena, caratterizzato dal disfacimento dei tessuti per putrefazione. Virginia non poteva non aver visto l’aumento esponenziale del numero degli storpi, ciechi e sordi per le strade dell’Inghilterra, come avviene dopo ogni guerra. Lei fu testimone diretta della seconda guerra boera (1899-1902) e della Prima guerra mondiale, prima di scrivere il summenzionato testo. Ma lei non vide i reduci più sfortunati perché la sua ideologia la rendeva cieca.
Gli esiti del privilegio maschile di andare in guerra all’epoca di Virginia Woolf.
Un pensiero illogico, magico, puerile, infantile.
Risulta alquanto sorprendente che il sentimento di essere parte svantaggiata nella ripartizione di diritti, lavoro e ricchezza denunciato dal movimento femminista durante il XIX e XX secolo, sia nato e abbia prosperato tra le cittadine borghesi nel Regno Unito dell’Impero britannico e negli Stati Uniti, cioè cittadine privilegiate che ricavavano la loro qualità di vita dalla conquista, colonizzazione e sfruttamento di una parte importante della popolazione mondiale, maschile e femminile. Mentre il movimento femminista inglese fioriva, la regina Vittoria, la regina guerriera (the warrior queen), espandeva il proprio impero britannico a colpi di spada fino a farlo diventare il più grande della storia. Durante i suoi oltre 60 anni di regno il paese fu sempre in stato di guerra da qualche parte nel mondo, le più importanti, la prima e la seconda guerra anglo-afghana, la guerra di Crimea, la guerra anglo-zulu, la prima e la seconda guerra dell’oppio, i moti indiani del 1857, la prima e la seconda guerra boera. E a quelle guerre la regina Vittoria mandava a combattere i suoi sudditi, neozelandesi, scozzesi, gallesi, inglesi, australiani, canadesi, irlandesi, indù. Tutti uguali, senza distinzione, da tutti i popoli, tutti uguali tranne le donne, le stesse che non chiedevano di combattere ma protestavano in nome dell’uguaglianza.
Queste femministe, come Virginia Woolf, concepivano andare in guerra come un privilegio maschile, ciò che tradisce la loro impressionante carenza di empatia per la sofferenza maschile, incapaci di mettersi nei panni dei soldati. La stessa empatia che mostravano le femministe americane negli anni ’70 autodichiarandosi vittime e bruciando i loro reggiseni, mentre molti dei loro coetanei maschi tornavano all’interno di bare dal Vietnam. La guerra, un privilegio maschile. È come se la loro concezione del mondo e della guerra fosse tratta da un fumetto di bambini di sei anni. Siamo in presenza di un pensiero illogico, magico, puerile, infantile.