di Davide Stasi. Chi ha letto l’articolo di stamattina, sa di cosa stiamo parlando. Partendo da uno dei tanti articoli di propaganda per la criminalizzazione maschile e vittimizzazione femminile, siamo arrivati a scoprire che ISTAT aveva fatto propri, dando ad essi una caratura istituzionale, i dati forniti dal 1522 relativi alla violenza sulle donne durante il periodo di lockdown. Conoscevamo la natura fragilissima di quei dati così come ci era chiara la manipolazione a cui sono soggetti da parte dei mass-media. Quelli che, per intenderci, ci dicono che durante la pandemia “ci sono state 6.254 donne vittime di violenza” (citazione dal Sole24Ore). Però volevamo capire come, o meglio con quale metodo di verifica, l’ISTAT avesse deciso di acquisirli come dati rigorosi e di valore. Per questo gli abbiamo scritto un messaggio contenente, dopo una doverosa premessa, cinque domande molto precise. Tramite la gentile Dr.ssa Maria Giuseppina Muratore, l’ISTAT ci ha risposto punto per punto proprio ieri, con un documento allegato che può essere letto qui.
Si tratta di un documento rivelatore, dunque estremamente importante. Quanto alla verifica della veridicità dei dati presenti nel “dataset” del 1522, la lettera precisa che esso contiene il numero di chiamate ricevute e non il numero di chiamanti. Per stessa ammissione dell’ISTAT, dunque, “è possibile che la stessa persona possa chiamare diverse volte il numero verde, sia per sé stessa sia per altri”. Visto da un altro versante, non c’è alcun controllo anti-frode per evitare che qualcuno desideroso di dare del fenomeno una rappresentazione sovrastimata organizzi chiamate a raffica, fino a farle arrivare ad esempio alle oltre 15.000 registrate durante i mesi di lockdown. Senza contare che per incapacità o dell’ISTAT a spiegare i dati, o dei giornalisti a capirli, la notizia che passa è che i numeri corrispondano alle persone (donne) vittime di violenza, non alle chiamate, incluse le eventuali multiple. Un’ambiguità su cui è facilissimo giocare, se si vuole trasmettere un allarme su un’emergenza ingigantita, e basta rileggere l’articolo del Sole24Ore o di qualunque altro quotidiano mainstream per rendersene conto.
Lo si sapeva già, ma messo nero su bianco fa molta impressione.
Dice la risposta dell’ISTAT che in ogni caso non è possibile distinguere chiamate e chiamanti, né tanto meno incrociare i dati con altre fonti più certe, perché la legge sulla privacy vieta di raccogliere i dati personali. Il che è curioso visto che le Regioni e il Ministero della Salute raccolgono tutti i dati sulla nostra salute e sui farmaci che compriamo; quello delle Finanze sui nostri redditi e patrimoni; quello della Giustizia sulla nostra situazione giudiziaria. Tutti dati sensibili, non semplicemente personali, conferiti a enti governativi. Le presunte donne vittime di violenza sono dunque le uniche in Italia esentate dal conferire i propri dati (solo personali) a un servizio in capo al Governo, in quanto promosso e governato dal Dipartimento Pari Opportunità e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Curioso davvero. Più che una tutela, sembra un ulteriore meccanismo per evitare verifiche sui dati e lasciare mano libera alla manipolazione. Infatti l’unica cosa utile da fare, cioè il confronto tra i dati 1522 e quelli della app YouPol, in questo modo non si può fare. Ed è un bene per chi è interessato a manipolare: la app della Polizia registra le richieste d’intervento vere e proprie, che di certo sono infinitamente minori dei numeri forniti dal 1522. Se quei numeri venissero fuori crollerebbe tutto il castello, insomma.
C’è poi quella che forse è la parte migliore della risposta dell’ISTAT, che in un punto dice: “si osserva che il 1522 non è gestito da una rete di soggetti privati ma è un numero verde di pubblica utilità promosso e governato dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri”. Poco dopo però si contraddice: “il 1522 è un numero di pubblica utilità […] che, attraverso procedure ad evidenza pubblica, affida il servizio a soggetti privati”. L’ambiguità sta tra i verbi “promosso e governato” e “affida”, che si sovrappongono nel tentativo di non far capire a chi legge chi gestisce cosa e come. In realtà si sa tutto molto bene: il 1522 nasce per iniziativa governativa, ma non è gestito dal Governo. Se chiamate, non vi risponde un funzionario del Dipartimento Pari Opportunità, ma una signorina reclutata da un sindacato, un’associazione, un centro antiviolenza, che per dare quel servizio prende soldi dallo Stato. Tipo i 30 milioni di euro del Ministro Bonetti versati in piena emergenza covid-19, per intenderci. In altre parole: il servizio 1522, da cui ISTAT ha preso i dati, ufficializzandoli, è gestito da soggetti che operano in un palese conflitto d’interessi, non tenuto sotto controllo da nessuno. Lo si sapeva già, ma messo nero su bianco fa molta impressione.
Una pesante “cortina di pizzo” che grava sull’intero paese.
Si dirà: un margine di affidabilità quei dati ce l’avranno pure. Ebbene si prenda il caso delle 695 chiamate che poi sia ISTAT che i media sostengono siano evolute in una denuncia. Abbiamo chiesto come abbiano fatto a verificare che quel numero fosse reale. La risposta è stata quella attesa: “sono evidentemente le informazioni riportate dal chiamante”, ci scrive l’ISTAT. Quindi la persona al telefono dice all’operatrice: “ok ora vado a fare denuncia”, oppure: “ok, ho denunciato”, e il tutto viene registrato come denuncia effettiva (per quanto il numero di denunce in sé, come si sa, non voglia dire nulla…). E se la persona mente? Se poi non lo fa? Non importa, c’è la “legge sulla privacy”, non si può verificare, ma ISTAT prende per buono il dato e i media pure. Così passa il concetto che in due mesi di lockdown quasi settecento donne hanno fatto denuncia per violenza. E ancora si attende la nuova favola del Sole24Ore sul perché molte altre abbiano denunciato e poi ritirato la denuncia. Soprattutto si attende di sapere da Cristina Da Rold come fa a conoscere tanti dettagli, se i dati del 1522 registrano solo il numero delle chiamate e non dei chiamanti.
È piuttosto evidente, per lo meno così pare a noi, che tutto sia molto improprio, nebuloso, confuso, ambiguo. Un gioco al rimpiattino tra un’ISTAT probabilmente sottoposto a potenti pressioni dalle lobby dell’industria dell’antiviolenza, che dà la benedizione a dati privi di qualsivoglia rilevanza statistica, e mass-media ugualmente schierati nell’offrire una versione della realtà falsata e strumentale a specifici interessi. Pare a tutti gli effetti un inquinamento della peggior specie nelle falde più profonde della percezione diffusa di un fenomeno, la violenza tra uomini e donne, che andrebbe invece misurato con la massima precisione e soprattutto il più rigoroso equilibrio. Abbiamo fatto notare tutto questo nella nostra contro-replica all’ISTAT, ancora indirizzata anche al Presidente Gian Carlo Blangiardo, in cui tante speranze di cambiamento erano riposte rispetto alla gestione di queste tematiche all’interno dell’Istituto, ma della cui azione purtroppo al momento non si vedono effetti, come già capitato con la Presidenza RAI di Marcello Foa. Segno che o si tratta di manager deboli e poco capaci, il che è poco credibile dati i loro notevoli pregressi, o più probabilmente la “cortina di pizzo” che grava sull’intero paese è molto più radicata, pesante e spessa di quanto si immaginasse.