Sono innumerevoli e spassosissime le ironie che stanno circolando in ambiente giudiziario per il nuovo “codice comportamentale” imposto al Tribunale di Vicenza dal suo presidente, il magistrato Alberto Rizzo. Basta dargli un’occhiata per scatenare memorie storiche da brivido e reminiscenze cinematografiche esilaranti di ogni tipo. Secondo le nuove regole, i 200 e passa dipendenti del tribunale (ma anche gli esterni) non potranno fare telefonate confidenziali, pause caffè troppo prolungate, scambiarsi affettuosità (o meglio: «amoreggiamenti») in orario di lavoro. Guai agli apprezzamenti verbali sul corpo, alle allusioni alla vita privata e sessuale e agli apprezzamenti rozzi, e vietati anche «gli sguardi insistenti, i discorsi a doppio senso e le allusioni». Vietato vivere, vietato esistere, insomma, al tribunale di Vicenza, e vietato anche utilizzare la parola per manifestare ogni possibile sfumatura dell’essere, che è poi un po’ il mestiere di avvocati e giuresperiti. Su tutto questo delirio bacchettone da riflusso democristiano anni ’50 si staglia la buffa figura di un presidente di Tribunale più simile a uno dei frati de “Il nome della rosa” di Umberto Eco che a un magistrato moderno.
Cosa detta tanta ridicola severità al Dr. Rizzo? Vale la pena chiederselo alla luce di diversi aspetti. Anzitutto va esclusa una sua personale idiosincrasia verso le manifestazioni di umanità che ha inteso sanzionare. Difficile davvero pensare che nella presente epoca moderna possa manifestarsi un censore così accanito, ancor più ai livelli così alti di un’istituzione così importante come la magistratura. Tutto è possibile, per carità, ma ci pare un’ipotesi molto remota. Riteniamo molto più probabile che questo irrefrenabile impulso sanzionatorio derivi da due possibili, e non per forza alternative, cause. La prima, la più probabile, è la paura. Abbiamo visto giusto di recente con quanta determinazione le agenti, diremmo le “commissarie politiche” del femminismo più cieco e violento stiano riuscendo a colonizzare procure e tribunali. Teorici capisaldi dell’oggettività, della verifica, delle garanzie, della ragionevolezza, anch’essi ormai sono ampiamente infiltrati dal basso, con l’ammissione sempre più frequente di associazioni femministe e centri antiviolenza come parti civili nei processi o come fornitori di formazione (indottrinamento), e dall’alto con l’accesso a ruoli apicali di personaggi compromessi fino al midollo dal suprematismo femminista, a favore del quale hanno rinunciato ad ogni minima oncia di imparzialità.
Una follia collettiva e un concreto danno per l’umanità e per il futuro.
La seconda ipotesi, meno probabile trattandosi di un presidente di tribunale, ma comunque possibile, è il desiderio di fare carriera. Abbiamo raccontato in questi giorni di scrittrici “di successo” perché allineate alla narrazione dominante orientata alla criminalizzazione e umiliazione della sfera maschile. Non è un trend soltanto “letterario”, ma vale ormai per ogni percorso che porti agli apici delle carriere, si tratti di giornalismo, sanità, cultura, finanza, politica o altro. I percorsi all’interno del sistema giudiziario ormai non fanno eccezione: apripista e pioniere in questo è il giudice di Milano Fabio Roia, idolo indiscusso di femministe e centri antiviolenza. Dopo e insieme a lui, tanti altri magistrati, uomini e donne, si manifestano sulla stessa linea in articoli, interviste e convegni, il che sarebbe di poco danno, ma anche in sentenze o decreti che decidono, in termini di giustizia, della vita delle persone. Sono finiti i tempi delle Carmen Pugliese o dei Francesco Morcavallo: oggi le facoltà di giurisprudenza hanno nei propri percorsi di studio materie declinate secondo visioni “di genere”, dove le discriminazioni “positive” sono parte integrante dell’agire “positivo” del giuresperito. Le nuove leve si portano dietro questo bias ben radicato, sia in termini di approccio mentale che come chiave di volta per l’avanzamento di carriera. Sanno che una professione condotta secondo una “prospettiva di genere” è garanzia di successo, se va bene, o di assenza di shitstorm e critiche pubbliche, nell’ordinarietà delle cose, e con questa mentalità impongono una visione generale a sempre più procure e tribunali.
Pensiamo che il presidente Alberto Rizzo sia finito in un cul de sac di questo tipo. Nell’ansia di mostrarsi più realista del re, zelante oltre ogni limite razionale per non incorrere in alcun tipo di problemi (anzi magari per trarne aperto plauso), ha redatto le sue misure draconiane, che avrà modo di sbandierare nei luoghi deputati come “lotta senza quartiere alle molestie, al maschilismo, al body-shaming” e quant’altro. Farsi un sorriso di gratitudine tra colleghi, uno sguardo d’intesa, un complimento sincero e senza doppi fini, una battuta confidenziale, scambiarsi un bacio (legittimo o meno), invitare a prendere un caffè e stare alla macchinetta più dei secondi necessari all’erogazione della bevanda, ma anche, perché no?, serrarsi dentro l’armadio della stanza 237 per amoreggiare in santa pace quando preda di umanissimi impulsi, tutto questo diventerà, presso il tribunale di Vicenza, un atto di resistenza. Un atto eroico ed esemplare, che solo pochi ardimentosi e coscienti della deriva incombente avranno la forza di prendere. Non tanto per il gusto di andare contro alle direttive del Dr. Rizzo, non deve farsene una questione personale. Qui la battaglia è solo per il buon senso, dunque si tratta di portare un po’ di luce nelle menti obnubilate dalla paura o dal vantaggio personale, facendo loro capire che il prezzo da pagare per entrambe le cose rischia di essere una follia collettiva e un concreto danno per l’umanità e per il futuro.