Mai lo si sarebbe potuto pensare, eppure Diego Armando Maradona, per la sua stessa esistenza e per la sua morte proprio nella giornata internazionale contro la violenza verso le donne, si è trasformato in una terrificante spina nel fianco per tutto il mondo femminista, in Italia e fuori. Proprio non gliela perdonano di averle oscurate, lui maschio, bianco, eterosessuale, capace di segnare in modo indelebile la storia di un intero sport. Per altro proprio quello dove si sta cercando a forza (e inutilmente) di trovare uno sbocco dignitoso per il settore femminile. Insomma hanno messo su un broncio terrificante e gliel’hanno giurata a sangue al Pibe de Oro. Questo è estremamente positivo: le femministe, quando sono preda di questo sovraccarico di livore, danno il meglio di sé, la maschera grottesca che copre le loro innate cattive intenzioni si frantuma e lascia trapelare tutto lo schifo che c’è sotto. Ad esempio la mancanza di dignità, senso dell’onore e della misura.
Capita allora che in Spagna, poco prima di una partita di calcio femminile, si chieda il minuto di rispetto in memoria del campione argentino. Paula Dapena rifiuta di partecipare, si siede in terra e volta le spalle alla tribuna, sotto gli sguardi scettici delle compagne di squadra. “Mi sono rifiutata di fare un minuto di silenzio per uno stupratore, un pedofilo e un molestatore”, spiegherà poi. Non è chiaro dove abbia preso gli elementi che le consentono di dire tutte quelle orribili cose su Maradona. Uno stinco di santo non lo è stato, questo è noto, ma nulla di ciò che ha fatto scalfisce la dimensione monumentale del suo apporto concreto e ideale allo sport del calcio. La giovane giocatrice dovrebbe saperlo e dovrebbe capire che il suo gesto è disonorante per lei stessa, per la divisa che porta e per la competizione che sta per giocare. Dovrebbe capire che il suo è un esibizionismo ideologico fine a se stesso, buono forse per farle guadagnare un po’ di popolarità da ribelle d’accatto, da dimenticare però già il giorno dopo sia come persona che come sportiva. Il suo è un gesto privo di dignità, tipicamente femminista.
Lo è ancora di più alla luce di altri frangenti dove si è evocato il ricordo di Diego Armando Maradona. Si prenda il rugby, ad esempio. Uno sport notoriamente agli antipodi del calcio, sotto ogni aspetto. Famoso è il detto secondo cui il rugby è uno sport da selvaggi giocato da gentiluomini, mentre il calcio è uno sport da gentiluomini giocato da selvaggi. Nonostante le differenze radicali, anche in quell’ambito si è ricordato il campione scomparso, proprio in occasione dell’incontro, a Sydney, tra la nazionale argentina di rugby e i famosissimi “All Blacks” neozelandesi. Senza che fosse necessario (si tratta di due sport diversi), senza che fosse richiesto (il minuto di rispetto è stato stabilito solo sui campi da calcio), questi ultimi hanno preparato una loro maglietta con il nome “Maradona” sulle spalle. Un giocatore l’ha adagiata sulla metà campo argentina, davanti ai giocatori avversari schierati, poi è rientrato nei ranghi. Subito è iniziata la tradizionale “haka”, la coreografia ad un tempo apotropaica e liturgicamente bellicosa, cui partecipano tutti i giocatori, tra linguacce e muscoli messi in bella vista. Un momento da brivido, eccezionale:
Quello messo in scena dai giocatori neozelandesi è un atto di onore. La haka ha svariati significati, non è solo la riproduzione dei balletti di guerra tradizionali dei Maori. Si tratta di un rito impregnato di rispetto e religiosità, virilità e spiritualità. La maglietta deposta sul campo argentino ha avuto un significato specifico: la nostra haka è per lo spirito di un uomo che ha segnato in modo indelebile uno sport, e importa zero che non sia il nostro sport. Soprattutto, quell’uomo straordinario è nato da voi avversari argentini e dunque noi onoriamo lui, voi, e ogni profondo aspetto umano inscritto nell’agonismo, comunque lo si declini. Faremo tutto ciò che possiamo per distruggervi sul campo e vincere la partita, ma sopra noi tutti aleggia lo spirito di un uomo superiore, il cui passaggio su questa terra onora tutti noi. Questo è stato il messaggio lanciato da quella montagna di testosterone che sono “All Blacks”. Un messaggio antico che sa di terra, di forza, di sudore, ma soprattutto di rispetto e onore. Cose grandi, cose da uomini che, volendo fare un impietoso e spietato confronto, mostrano in tutta la sua miserabile piccineria il gesto stupido e fanatico della giovane calciatrice femminista spagnola, e in tutta la loro mostruosità le idee malsane e le cattive maestre che gliel’hanno ispirato.