L’ILGA – l’associazione internazionale GLBT – ogni anno monitora i singoli Stati dell’Europa riguardo lo stato dei diritti delle persone GLBT, e compila una relativa classifica: nell’ultima l’Italia è risultata al 33° posto su 47, addirittura dietro l’Ungheria di Orbán. Per ragioni di brevità non possiamo esporre in dettaglio i criteri della classifica ma ovviamente sono “drogati” – dando ad esempio un’importanza sproporzionata all’esplicita menzione di orientamento di genere e identità sessuale nei programmi scolastici e nella legislazione riguardante discriminazioni e violenze, alla legislazione riguardante le persone intersex che costituiscono uno 0,018% della popolazione, e altre amenità di scarso impatto sul reale godimento dei diritti fondamentali – il lettore può consultare i parametri completi qui. Nell’ultimo report collegato al monitoraggio, l’ILGA denuncia esplicitamente: «un pesante aumento nel 2021 della retorica anti-GLBT da parte di politici e altri leader, che ha buttato benzina sul fuoco di un’ondata di violenza, con crimini anti-GLBT riportati in ogni nazione quest’anno».
All’ILGA fa eco un rapporto dell’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali (FRA), uscito nel 2020, “Una lunga strada da fare per i diritti GLBT”, che illustra i risultati di un ampio sondaggio online (riguardante tutto il territorio europeo) condotto tra il 27 maggio e il 22 giugno 2019. Lo stesso rapporto, che andava ad aggiornare il precedente sondaggio FRA del 2012, era stato al centro di una campagna promozionale diffusa dalle associazioni di settore italiane quando in Parlamento si doveva votare in merito al passaggio in esame del Ddl Zan, ed è stato tirato fuori di nuovo in una campagna social in occasione della giornata del 17 maggio. Osservando in maniera superficiale le grafiche realizzate per questa campagna si potrebbe avere l’impressione di trovarsi nel bel mezzo di una guerra civile contro le persone GLBT, un’emergenza assoluta di odio dilagante; un ragazzo gay potrebbe quasi cominciare a temere di uscire di casa.
Ma è davvero così? Il lettore, pensando alla propria città, ha questa percezione? Come al solito quando si ha a che fare con dati raccolti/diffusi da associazioni legate alla galassia woke bisogna chiedersi: come sono stati raccolti? Come è stato selezionato il campione e quanto è ampio? Se si tratta di un sondaggio, come sono state strutturate le domande? Basta una lettura neanche troppo pignola del rapporto FRA 2020 per accorgersi di alcuni stratagemmi che sono stati usati per gonfiare il più possibile l’allarme. Anzitutto, rispetto al rapporto del 2012, la possibilità di partecipare al sondaggio è stata allargata ai ragazzi tra i 15 e i 17 anni, che la conflittualità col mondo esterno, mediamente, ce l’hanno a prescindere da qualsiasi loro appartenenza identitaria.
Poi, il campione non è selezionato a random, dato che non esiste una lista di tutte le persone che si identificano nelle sigle GLBT, perciò, nel campione che effettivamente ha completato il sondaggio, ritroviamo lo stesso bias che abbiamo già incontrato in alcuni sondaggi femministi (ad esempio qui e qui), ossia l’essere composto in larga prevalenza da un sottogruppo di attivisti engaged nella “lotta contro l’etero-normatività” e quindi particolarmente attenti a sottolineare il proprio disagio nella nostra società “patriarcale e omofoba”. Lo conferma il Technical Report laddove sottolinea che il processo di recruiting è avvenuto soprattutto attraverso le associazioni di settore e i loro canali social media e, perciò, sono state raggiunte soprattutto persone, quand’anche non direttamente iscritte o affiliate, comunque gravitanti intorno all’associazionismo attivo, a vari livelli di coinvolgimento; anche le dating apps di categoria come Grindr sono state coinvolte attraverso una campagna promozionale, contribuendo con una bella fetta del campione finale.
Se si guarda poi l’elenco delle domande del sondaggio online, tralasciando tutte quelle mirate a inquadrare i rispondenti per età, orientamento sessuale etc., salta all’occhio che la maggioranza delle domande verteva sulla percezione soggettiva di determinati rischi o di un determinato “clima”, da parte dei rispondenti più che su fatti concreti. Qualche esempio: «Secondo te, durante gli ultimi 5 anni, pregiudizio e intolleranza verso le persone GLBT sono aumentati o diminuiti?»; «Durante gli ultimi 12 mesi, ti sei sentito personalmente discriminato a causa del tuo essere omosessuale?». Quindi non stiamo parlando di fatti: magari una persona è stata scartata a un colloquio di lavoro e attribuisce ciò al fatto di essere omosessuale, quando invece sono stati correttamente valutati i propri meriti. Stesso discorso per «durante gli ultimi 5 anni sul lavoro/a scuola hai mai ricevuto commenti negativi a causa del tuo essere omosessuale?». Altre domande sono «eviti mai di tenere le mani a qualcuno in pubblico per paura di essere aggredito/molestato?» e «eviti determinati luoghi per paura di essere aggredito/molestato in quanto omosessuale?». Quindi non si misurano fatti subiti ma la percezione personale di un rischio. Una sezione è finalmente dedicata ad aggressioni fisiche o sessuali (episodi effettivi di aggressione o violenza nei precedenti 5 anni sono stati riportati dal 5% dei rispondenti); la sezione seguente però, quella riguardo le “molestie”, come avviene nei sondaggi femministi sulle molestie di strada, include tra le stesse “insulti”, “prese in giro”, “gesti minacciosi”, l’essere “attesi” o “seguiti in maniera minacciosa”, “email o sms offensivi”, e addirittura “sguardi inappropriati”. Ma, cosa ancora più incredibile, chiede se il rispondente abbia subito una di queste cose negli ultimi 5 anni “per una qualsiasi ragione”! Quindi se ad esempio il fratello maggiore ha preso in giro il rispondente una volta negli ultimi 5 anni, è entrato nella statistica; se qualcuno ha fissato un rispondente per strada per il suo bizzarro abbigliamento o magari per i capelli rosa shocking, e quest’ultimo l’ha percepito come sguardo minaccioso, è entrato nella statistica.
È in questo modo che si arriva ai “terribili” risultati finali. La campagna social delle associazioni di settore si è concentrata infatti sui seguenti dati, comunicati in questo modo: «il 62% delle persone GLBT ha paura di prendere per mano la persona amata»; «il 30% ha paura di subire aggressioni»; «il 61% non esprime liberamente la propria identità»: fin qui si tratta di percezioni soggettive e scelte personali riguardo gli atteggiamenti da tenere in società, nessun fatto. «Il 23% delle persone dichiara di aver subito discriminazioni sul luogo di lavoro» (e nelle domande non c’era alcuna limitazione su cosa potesse rientrare in questo campo né la percezione soggettiva era distinta in alcun modo da discriminazioni di fatto); «il 32% dichiara di aver subito un episodio di molestia» (e ci stupisce che siano così pochi vista l’ampiezza delle maglie del sondaggio!). E infine «l’84% non denuncia questi episodi», dimenticando di specificare che le ragioni prevalenti date dai rispondenti sono state «non era così grave», «non avrebbe fatto differenza» e «non sarebbe stato preso sul serio» (in media, il 51% di chi non ha denunciato le “molestie” e il 33% di chi non ha denunciato aggressioni fisiche o sessuali) il che, di nuovo, non stupisce visto che erano incluse prese in giro, sguardi insistenti, un sms e cose del genere, per giunta “per qualsiasi ragione”.
Inoltre, sono completamente obliterati i risultati positivi emersi dal sondaggio. Come ad esempio il confronto tra la soddisfazione complessiva per la propria qualità della vita nel campione GLBT confrontato con quella della popolazione generale, nella stragrande maggioranza dei paesi europei risultata per entrambi i campioni sopra il 6 (su una scala 1-10) e pressoché in linea tra le due popolazioni (inclusa l’Italia, dove anzi è leggermente superiore per i GLBT), e solo in pochi paesi risulta molto inferiore per la popolazione GLBT. Oppure, il fatto che le persone che vivono apertamente il proprio orientamento sessuale siano passate dal 36% del campione nel 2012 al 52% del 2020; e che la maggior parte dei rispondenti ritenga che intolleranza, pregiudizio e violenza contro la comunità GLBT siano rimaste inalterate o diminuite rispetto al sondaggio precedente, e solo circa un terzo le percepisca aumentate.
D’altra parte la minima percentuale di rispondenti che ha riportato episodi di aggressione fisica o sessuale è rispecchiata dai dati ufficiali (fatti stavolta, non percezioni e giravolte) dell’OSCAD, Osservatorio per la Sicurezza contro gli Atti Discriminatori, che nell’ultimo rapporto (dicembre 2021) riporta una media di poco più di 1000 crimini d’odio segnalati l’anno, (di cui una buona metà rientrano nelle categorie di incitamento alla violenza e comportamento minaccioso, e solo un quinto – peraltro in diminuzione – effettive aggressioni fisiche), ma di questi solo un decimo circa (71 nel 2020) riguardano orientamento sessuale/identità di genere mentre ahimé la stragrande maggioranza riguardano l’ambito razziale e religioso. E non stiamo parlando solo di sentenze definitive di condanna, né solo di effettive denunce, ma della totalità delle segnalazioni alle autorità competenti, incluse quelle rimaste anonime. Siamo convinti che anche un solo episodio di aggressione o violenza sia sbagliato e da condannare, ma tutti i dati fin qui considerati contraddicono direttamente l’idea che si vuol far passare (per giunta col coraggio di dire che un atto di violenza di questo tipo «non è ancora reato in Italia») di trovarsi in un’epidemia di violenza omofobica in crescita, una specie di apocalisse antigay. Martellare così tanto in questo senso ci sembra un’ottima strategia se l’obiettivo è perseguire un’agenda politica, alimentando quelle stesse paure che vengono strumentalizzate per farlo; molto meno se lo scopo è migliorare effettivamente la qualità della vita delle persone, specialmente adolescenti e giovani che tendono a credere in quello che leggono sui social da associazioni ed enti di settore.