La Fionda

Uno strepitoso circocircuito sulla vicenda di Saman

In premessa, e a scanso di equivoci: nessuno dovrebbe essere obbligato a sposare nessuno contro la propria volontà. Farlo è una barbara violenza. Uccidere chi si sottrae a quell’obbligo è un crimine orribile che va punito senza la minima attenuante. È ormai evidente che Saman, la ragazza di cui si parla da giorni nei media, nel migliore dei casi è stata rispedita in Pakistan, nel peggiore è stata uccisa dalla famiglia per punirla della sua opposizione a un matrimonio combinato. Quale che sia la verità, proviamo un senso di angoscia profonda e vorremmo che nulla le fosse accaduto e che lei fosse ancora tra noi per esercitare, come ogni altra persona, il suo diritto a costruirsi la vita a cui aspirava. Questo è un commento fatto non pro-forma, ma dal profondo del cuore di chi ha un rispetto sacrale per la libertà e la sovranità di ogni individuo ad autodeterminarsi. Spiace dover fare riferimento a un fatto così assurdo e tragico per sviluppare altre riflessioni, ma ciò che si è visto e si riscontra tra gli opinionisti e sui media è troppo significativo per essere ignorato. Dunque, espressi doverosamente i sensi più sinceri della nostra partecipazione emotiva al fatto, ci si conceda di porre lo sguardo su ciò che è accaduto e si è manifestato attorno ad esso.

Un cortocircuito. Talmente potente da poter illuminare a giorno anche la notte artica più profonda. Ed è tale perché frutto di una formidabile contorsione di quel mondo benpensante e politicamente corretto che domina la comunicazione pubblica e la politica. A rendere tutto evidente è stato il richiamo della giornalista Ritanna Armeni, che in un’intervista ha rampognato le femministe per non aver parlato della vicenda di Saman come di un “femminicidio”, cogliendo l’occasione per accusarle, insieme a un po’ tutta l’opinione pubblica nazionale, di “razzismo strisciante”. Nell’esternazione della Armeni c’è già tutto l’innesco del cortocircuito. Andiamo con ordine: quello di Saman è un femminicidio? Posto il fatto, ormai acclarato, che nessuno sa cosa sia un femminicidio, la risposta è no, qualunque accezione si dia al termine. Non è stata uccisa dal marito, ex marito, fidanzato o ex fidanzato, ma a quanto pare da uno zio. Assente dunque il movente “passionale” o della gelosia o similare. Non è stata uccisa nemmeno “inquantodonna”, per due motivi: era donna anche prima che la uccidessero, lo era dalla nascita, eppure nessuno le ha mai torto un capello in famiglia, ma soprattutto pare che la sentenza di condanna a morte sia stata caldeggiata soprattutto dalla madre («è l’unica soluzione», avrebbe detto, riferendosi alla soppressione della figlia) e che sia stata lei a consegnare la figlia allo zio che si presume l’abbia uccisa. Può una donna sancire la morte di un’altra donna “inquantodonna”, cioè per odio di genere e impulso patriarcale? No, altrimenti lei stessa si sarebbe suicidata da tempo. Saman in realtà è stata uccisa perché rifiutava l’imposizione familiare di sposare un suo cugino. Un’imposizione sessista, indirizzata a lei inquantodonna? No: la stessa imposizione gravava sul cugino e non è noto se fosse innamorato di Saman o semplicemente felice di sposarla: la posizione della componente maschile, come sempre, è ignorata o data per scontata come malvagia. In ogni caso era una decisione presa da altri che gravava su entrambi, la ragazza e il ragazzo. Un orrido esempio di parità e di assenza di sessismo.

saman
Saman Abbas

Tutto sulle spalle della “maschilità tossica”.

Tuttavia, nonostante il caso di Saman non rientri in nessun modo nell’impalpabile categoria del femminicidio, Ritanna Armeni lamenta che le compagne di merende del femminismo nazionale non l’abbiano evocato come tale. Questa omissione provoca l’innesco di una seconda bomba politicamente corretta: se si grida al femminicidio quando l’autore è un italiano e non lo si fa quando l’evento accade in un contesto che coinvolge persone immigrate, allora c’è un razzismo strisciante. In sostanza, secondo la Armeni, bisognava affermare una mistificazione («è femminicidio») per evitare di cadere in un’altra mistificazione («c’è un razzismo strisciante in tutti gli italiani»). Affermando la prima delle due, però, si sarebbe leso un principio solido come la roccia nel progressismo nostrano, e non solo: dei reati commessi dagli immigrati non si parla e non si deve parlare, anche contro le evidenze e i numeri. Ecco allora l’esplosione: due categorie che si asseriscono (falsamente) come sistematicamente oppresse nel nostro paese, le donne dagli uomini e gli immigrati dagli autoctoni, finiscono per confliggere. Nella scala di valori dei clan identitari del politicamente corretto e dell’elettoralmente vantaggioso chi vale di più, la donna o l’immigrato? Bella sfida. Se non ci fosse in ballo una persona molto probabilmente morta ammazzata, sarebbe uno spettacolo pirotecnico unico al mondo per chi non ne può più di questi doppi e tripli standard imposti dal collettivismo culturale post-modernista dilagante.

C’è di buono che quando un pentolone pieno di stracci lerci comincia a bollire, la sporcizia tende a venire a galla. Ecco allora che il cortocircuito fatto esplodere da Ritanna Armeni smuove le coscienze di qualche femminista, che timidamente prova a sfangarsela con qualche supercazzola che si spera salvi capra e cavoli, sia il vittimismo femminista che quello immigrazionista. Capitana assoluta di questo trend è senz’ombra di dubbio la senatrice Valeria Valente, che posta sui social del PD una dichiarazione puramente emozionale: Saman aveva paura e nessuno l’ha protetta ergo, testuale: «ci vogliono più fondi e più risorse per la rete antiviolenza». E te pareva. Ogni occasione è buona per battere cassa, anche se si tratta di ballare sul corpo di una donna morta ammazzata. Sì perché i centri antiviolenza non sarebbero serviti a nulla (di fatto non servono mai a nulla se non ad aggravare le situazioni), così come non è servito a nulla l’articoletto che la Carfagna ha fatto inserire tempo fa nel Codice Rosso per proibire i matrimoni combinati, quasi fossero una prassi tutta italiana. Un successo personale poi sbandierato ovunque, salvo che come al solito è stato un modo per attirare lo sguardo di tutti sul dito, distogliendolo dal guardare la luna, il problema vero, ossia il fatto che non esiste in Italia una politica di vera integrazione (sociale e culturale) degli stranieri, ma un mero mercato dell’accoglienza che non intacca minimamente gli usi e costumi che costoro portano con sé. Siano essi belli e costruttivi, siano vera barbarie, come nel caso di Saman.

sposa bambina

Prassi barbare, miste tribali-familiari.

Ma non finisce qui: come certi nodi che più provi a scioglierli più si rinsaldano, il tentativo di uscire dall’empasse ha permesso di portare sulla ribalta nazionale le ossessioni e le contraddizioni di tutto il sistema di pensiero imposto alle masse. Se si scorrono i media, le dichiarazioni dei politici e degli opinionisti, appare chiaro come sia in atto un braccio di ferro tra chi vuole addossare la responsabilità di tutto all’Islam e alle sue pratiche e chi vuole girare tutto sulle spalle della maschilità tossica che impedirebbe l’autodeterminazione della donna. Tra le due fazioni è in atto una lotta senza quartiere e, a quanto ci consta, ad avere la meglio è la straordinaria potenza di fuoco del femminismo: usualmente utilizzata per criminalizzare tutto il genere maschile, ora impone la sua chiave di lettura della vicenda, su due direttrici tra le quali si barcamena allegramente. La prima è che la causa di tutto sia il carattere maschilista e patriarcale della cultura islamica. Una furbata ambigua, che mette al centro del bersaglio la maschilità e un po’ più discosto e deresponsabilizzato l’aspetto religioso. Come a dire: se solo l’Islam perdesse i suoi caratteri misogini, andrebbe tutto a gonfie vele. La seconda è più radicale: rimuove del tutto gli aspetto etnico-religiosi e addossa la colpa interamente sul patriarcato, la maschilità tossica eccetera eccetera. Monumentale in questo senso la presa di posizione della popolare rivista “Rolling Stone”, che non sente ragioni: «far passare la scomparsa di Saman per una questione di religione vuol dire ignorare un problema ben più presente nella nostra società: quello della cultura patriarcale, della violenza sulle donne, dei femminicidi». Il messaggio è chiaro: immigrazionisti non mettetevi di traverso all’imposizione di due bugie e di una verità sovradimensionata, ingoiate il rospo e avanti così. Colpa del “patriarcato” dev’essere e colpa del “patriarcato” sia, e poco conta la contraddizione che la madre di Saman abbia, a quanto pare più di tutte, voluto la morte della figlia.

La cosa meravigliosa è che più queste due fazioni si affrontano, più diventa evidente all’opinione pubblica la volontà di accanirsi a prescindere e in termini ideologici contro la figura maschile in quanto tale. Basta farsi un giro sui social e vedere i commenti a uscite come quella di “Rolling Stone” per rendersene conto. È del tutto preponderante la sensazione che sia tutto costruito per affermare un falso problema (il “patriarcato”) in modo da coprirne uno vero (l’immigrazione incontrollata e la mancanza di una capacità d’integrazione). Del primo la gente non ha né sentore né prove: si tratta di milioni di persone circondati da donne che non subiscono alcuna violenza né discriminazione, anzi se la passano tutte piuttosto bene. Del secondo invece il sentore c’è eccome: sono evidenti le difficoltà a inglobare nella società gli arrivi dalle aree povere del mondo. Così, più si spinge verso la colpevolizzazione del maschile sulla vicenda Saman, più la dissonanza stride, il gioco si scopre, il nodo si stringe strozzando gli agitatissimi alfieri del politicamente corretto progressista. Non che la destra abbia di che vantarsi, sia ben chiaro: invece di cogliere l’occasione per aprire e chiudere i conti con il femminismo tossico, strumentalizza la vicenda per dare addosso agli immigrati in generale e agli islamici in particolare. Ignorando (o più probabilmente fingendo di non sapere) che in Pakistan l’omicidio di chiunque da parte di chiunque è punito con la pena di morte, che l’Islam di per sé non impone la pratica dei matrimoni forzati, che non ci sono aspetti etnico-religiosi nella decisione che la famiglia voleva imporre a Saman e a suo cugino. Esattamente come per l’infibulazione, si tratta di prassi miste tribali-familiari, che restano vive là dove fiorisce non la religione musulmana, ma l’ignoranza, l’arretratezza o la povertà (materiale o civica). Questo è il centro della questione: la famiglia di Saman si è installata in Italia senza che nessuno le mettesse in chiaro che da noi certe pratiche sono considerate barbare e per questo condannate, senza farle capire che il Paese la accoglieva a condizione che si rendesse conto di essere entrata in un altro mondo rispetto a quello di origine e che avrebbe dovuto evolversi alla veloce. Per lo meno con la stessa velocità con cui noi occidentali ci adeguiamo alle regole dei paesi esteri, quando ne siamo ospitati in via temporanea come turisti o in via definitiva come parte integrata delle loro società.



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