Sono dell’impressione che non stiamo costruendo una società con un’attitudine così positiva nei confronti del sesso come vorremmo credere. Ma non mi riferisco al “c’è ancora molta strada da fare” lamentato spesso dal frangente più progressista, senza nulla togliere che per certi versi abbia ragione: l’indottrinamento giudeocristiano da cui siamo stati, letteralmente, “tenuti per le palle” per secoli in Occidente continua a farsi sentire. Sì, “ha fatto anche cose buone” (cit.), ma aiutarci a costruire un rapporto sano coi nostri impulsi violava il dress-code ed è rimasta fuori dalla lista. Non è difficile da immaginare, d’altronde, che una moralizzazione dell’atto sessuale non possa che promuovere un’attitudine tossica e repressiva nei confronti dello stesso. La cultura conservatrice quantomeno non finge il contrario, non nasconde le sue manie di controllo su ciò che ciascuno fa col proprio corpo, non si pone come baluardo di “sex-positivity”.
La cultura che vorrebbe contrapporcisi, invece? Quella cool, quella dove accettare è accettato, discriminare è discriminato, e ogni barriera o giudizio nei confronti del sesso dovrebbe, teoricamente, essere abolita? Beh, la mia impressione è che sia una cultura composta da persone più preoccupate di ostentare libertinaggine e apertura mentale per sentirsi parte del club che di coltivare la propria sessualità in maniera sana. Persone che, a parole, supportano qualsiasi manifestazione della stessa, soprattutto quando si tratta di donne per la campagna #freethenipple, uomini al gay pride in atteggiamenti che in qualsiasi altra circostanza verrebbero multati, drag queen che spiegano ai bimbi la bellezza di essere genderfluid. Uomini etero che fanno apprezzamenti, quelli un po’ meno, ma hey, la pretesa di perfezione è nemica del progresso, no? Persone nella cui utopia arcobaleno pure i mobili IKEA usano la propria sessualità come marchio identitario, ma azzardarsi per davvero a flirtare con qualcuno e portarselo a letto richiede un atto di coraggio.
Una cultura sessualmente diabetica.
Il rapporto sessuale è idealizzato e allo stesso tempo visto con sospetto, in un modo ironicamente simile a quello dei cattolici più retrogradi: per questi ultimi, una tentazione del diavolo fino all’unione in matrimonio; per i progressisti, il frutto di una molestia, un adescamento, una coercizione o una violenza fino a prova contraria. La visione dworkiniana (mi riferisco alla femminista Andrea Dworkin, non al giurista e filosofo Ronald Dworkin) per cui il coito eterosessuale sarebbe un’estensione dell’oppressione della donna da parte dell’uomo si riflette in modo subdolo nell’isteria con cui moltissimi giovani, donne e uomini, lo vivono. Da parte femminile, nella crescente mania di controllo per ogni singolo aspetto dei rapporti occasionali e non solo, ascritti a un elenco di requisiti sempre più stringenti per non essere potenzialmente considerati stupro. Ne parlai tempo fa per la pagina Facebook Smascheriamo il Femminismo in riferimento all’ultima, delirante legge danese sul consenso e all’ancor più delirante applicazione iConsent nata in seguito. Da parte maschile, nella divisione sempre più pronunciata fra chi, avendo anche solo un minimo di sensibilità, è fobico di prendere qualsivoglia iniziativa sessuale e imbranato nel provarci, e chi invece se ne sbatte di qualsiasi cosa, compreso che la donna abbia un’esperienza piacevole. Più il gioco diventa viziato e rischioso, del resto, più la cerchia di chi continua a giocarlo con gusto si stringe intorno agli psicopatici.
Perché tutto questo? Forse l’accessibilità non è mai stata la più grande barriera al sesso, e trattarla come se lo fosse ci ha illuso che, liberandocene, avremmo automaticamente cominciato a viverlo tutti non solo in abbondanza, ma in modo sano. Sulla prima abbiamo toppato alla grande, ed è palese già solo dall’osservazione dei dati: i giovani, soprattutto uomini, hanno una vita sessuale sempre più scarna e insoddisfacente. Ma è sulla seconda che vorrei soffermarmi. D’altronde, anche laddove quest’abbondanza ci fosse, diremmo mai che una cultura in cui, in nome della libertà di mangiare quel che si vuole senza essere giudicati, tutti girano con una maglietta con su disegnata la propria torta preferita, proponga un’attitudine sana rispetto al cibo? Eppure è un po’ quello che facciamo rispetto al sesso, in questa cultura che si pubblicizza come sana semplicemente in quanto esplicita e all’apparenza permissiva, quando di fatto sarebbe più accurato definirla “sessualmente diabetica”.
Una percezione che si adatta.
Come la disponibilità di cibo a portata di mano in quantità pressoché illimitate è un privilegio della modernità, lo stesso dicasi per la contraccezione, la prevenzione delle malattie veneree e la protezione legale dalla violenza. E come sfasato rispetto alla realtà attuale è il nostro senso di fame, lo stesso dicasi per i nostri sensi di allerta, diffidenza, percezione del pericolo e indignazione. Non ci siamo evoluti per assimilare quantità così ingenti di zuccheri, motivo per cui rischiamo di diventare grassi e diabetici quando gestiamo male il cibo, e non ci siamo evoluti per vivere la sessualità come se fosse una maglietta da poter indossare in ogni momento senza alcuna implicazione, motivo per cui rischiamo di sviluppare determinate isterie quando gestiamo male quest’ultima. Ma se nel caso del cibo, quantomeno, i segnali sul nostro corpo e sulla nostra salute a un certo punto diventano talmente palesi da non poter essere negati, e così sarà almeno finché la degenerazione del movimento di body positivity non avrà finito di fagocitare pure i nutrizionisti, purtroppo quando osserviamo fenomeni sociali complessi come le relazioni interpersonali questo tipo di feedback ci viene a mancare, creando un loop: chi cerca qualcosa la troverà ad ogni costo, anche quello di ridefinirla continuamente.
È così che nascono le microaggressioni, un complimento sgradito diventa una molestia, un fischio diventa un pericolo, parlare di differenze attitudinali fra uomini e donne diventa discriminazione sessista e fare coming out come “queer”, una cosa che dice più sul proprio orientamento politico che sulla propria sessualità, un pretesto per potersi ritenere vittima di una marginalizzazione immaginaria. Tutto questo, nemmeno a dirlo, è più pronunciato proprio laddove vi è maggior sicurezza, tolleranza e apertura nei confronti della sessualità. Il modo in cui il nostro giudizio cambia e la nostra percezione si adatta per accomodare ciò che impariamo ad aspettarci è stato evidenziato in questa serie di interessanti esperimenti nella cui prima fase è stato chiesto ai partecipanti di contare, in mezzo a dei puntini colorati, quelli di colore blu. Dopo averli portati ad aspettarsene un certo numero, le immagini hanno cominciato a cambiare e i puntini blu a diminuire: l’effetto è stato che i partecipanti hanno cominciato a classificare come blu anche quelli di colore viola. Lo stesso è stato ottenuto nella fase successiva, mostrando fotografie di diversi volti e chiedendo di identificare quelli minacciosi, e in quella finale, ponendo una serie di richieste e chiedendo di identificare quelle non etiche: man mano che diminuivano i volti minacciosi, i partecipanti hanno cominciato a vedere come tali anche i volti neutri, e man mano che diminuivano le richieste non etiche, a vedere come tali anche quelle innocue. Questo effetto è rimasto prevalente persino dopo averli avvertiti, istruiti e pagati per resistervi consciamente.
Siamo tornati al concetto di peccato originale.
Ora, immaginate di vivere in una società tutto sommato sessualmente libera e sicura, quantomeno al paragone con le altre esistenti, ma di avere degli istinti naturali tarati per percepire il sesso come un atto potenzialmente rischioso, in particolare se siete donne. Aggiungeteci una macchina mediatica che non fa che fomentare questi istinti parlando di emergenza femminicidio di qua, violenza di là, rapporti fra ragazzini ubriachi che il giorno dopo diventano stupri, misoginia interiorizzata, omofobia dilagante e quant’altro. Vi stupisce che le piazze siano sempre più piene e i letti sempre più vuoti? Lo psicologo evoluzionista Gad Saad ha dato al fenomeno il nome di “omeostasi del vittimismo” (in “The Parasitic Mind: how infectious ideas are killing common sense” – 2020), identificandone le radici biologiche ed estendendolo alla percezione di violenze e discriminazioni di qualsiasi tipo. Racconta, ad esempio, come anche la definizione di razzismo sia stata manipolata per poter sviluppare il concetto infalsificabile di “razzismo sistemico” ed estenderne l’accusa non solo alle istituzioni, ma a chiunque, bianco, non offra una sorta di compensazione. Uno stile molto simile a quello con cui, ai tempi, la nostra Michela Murgia aveva sostenuto che il solo fatto di nascere maschi in un sistema patriarcale e misogino rendesse colpevoli di portarne avanti gli interessi.
È amaro e ironico allo stesso tempo che, nel volerci dissociare in modo così veemente dal retaggio cattolico che ci è stato imposto, siamo tornati al concetto di peccato originale. Ma sto divagando. Sarebbe bello poter eliminare certi problemi sociali del tutto. Ma nella matura consapevolezza che non succederà mai, forse è giunto il momento di realizzare che la nostra percezione può trarci pericolosamente in inganno e farci fare dei paradossali passi indietro mentre ci impegniamo ad avvicinarci all’asintoto. Il che non dev’essere preso come un invito a desistere dallo sforzo di migliorare laddove ancora c’è ampio spazio per farlo, quanto a stare attenti nel cercare di vederne a tutti i costi anche dove non ce n’è. Perché il rischio è quello di allontanarci pur di crearlo.