Il settore giustizia è in subbuglio. A turbarla, oltre alla spada di Damocle del caso Palamara (a proposito: leggete “Il sistema“, intervista di Sallusti a Palamara: è il miglior libro horror dell’anno…), ci sono le recenti assoluzioni degli imputati al processo “Eni-Nigeria”, un presunto caso di tangenti finito nel mirino della Procura di Milano che ha generato un procedimento sbriciolatosi nel nulla dopo tre anni, con un notevole strascico di polemiche anche internamente alla Procura. In reazione a questo caso fioccano le critiche per l’intera magistratura, tanto che David Ermini, Vice-Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, arriva a proporre di sottoporre i giudici a una valutazione i cui esiti possano influenzarne gli avanzamenti di carriera. È una proposta vecchia e piuttosto severa: se un inquirente si vede archiviati o esitati in assoluzione (o riformati per la giustizia civile) troppi procedimenti, allora, dice Ermini, si pone un problema di professionalità, che va valutato. Che lo dica per far dimenticare che il suo è un nome molto ripetuto nelle chat di Palamara o no, la proposta è più che sensata. Non a caso l’Associazione Nazionale Magistrati alza subito gli scudi elevando grandi proteste. Una delle più potenti caste del Paese non ci sta a farsi mettere sotto valutazione.
Eppure, come detto, sarebbe molto opportuno farlo se si volesse recuperare il senso vero e il ruolo genuino della magistratura. A dare un inquadramento perfettamente chiaro della questione è, in un’intervista all’Huffington Post, il Professor Tullio Padovani, docente emerito di diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, avvocato e componente dell’Accademia dei Lincei. Le sue parole sono illuminanti. Parlando del processo “Eni-Nigeria” dice: «Ora parliamo di questo caso, ma il problema si ripropone spesso, quando si azzera la tutela dell’indagato e si finisce di celebrare i processi mediatici». Sul procedimento milanese per altro si è espresso anche l’ex PM di “Mani Pulite” Antonio Di Pietro, con una frase lapidaria: «si tratta di un modello di indagine alla ricerca di un reato, non è un modello di indagine alla scoperta del colpevole di un reato avvenuto». Entrambi parlano di un presunto caso di corruzione, soldi, politica, potere, ma queste frasi a noi fanno venire in mente la mostruosa quantità di false accuse e l’effetto moltiplicativo ottenuto da una legge folle come quella del “Codice Rosso”, che pare appunto costruita per individuare subito il colpevole, senza verificare se ci sia stato o meno un reato. Il che è niente più e niente meno che l’inversione della presunzione d’innocenza, un principio che con tristezza Padovani definisce «un bel vestito destinato a non essere indossato mai».
Un sistema impossibile da riformare.
Ma questa anomalia accade raramente o in modo pressoché sistematico? «In base alla mia esperienza», osserva Padovani, «in molte circostanze ho avuto l’impressione che si cercasse prima il colpevole e poi il reato». A peggiorare le cose, poi, c’è la narrazione mediatica dei fatti «nutrita, spesso, di informazioni fornite dalla procura e, quindi, unilaterali. Parte della stampa finisce per dare per accertati fatti che sono ancora oggetto di indagine. E su questi imposta tutto il racconto. Ecco che, così, si assiste a una deformazione del processo. E al danno iniziale per l’imputato si aggiungono le critiche, la censura, nei confronti del giudice che – secondo diritto – assolve. Io ne ho conosciuti di coraggiosi che hanno assolto e si sono trovati a fronteggiare una sorta di ribellione, dovendo ricorrere addirittura alla scorta». Come non pensare alle proteste femministe di fronte ai tribunali per chiedere pene severe per questo o quell’accusato o alle direttive di Michela Murgia alle testate del Gruppo GEDI per raccontare con la dovuta manipolazione i casi di omicidio di donna per mano di un uomo? Siamo lì e Padovani non ha dubbi sulle storture che, nella pratica, ovvero quando a sedere e decidere non è un giudice con la schiena dritta, tutto ciò innesca nei procedimenti giudiziari, a partire dall’incriminazione a prescindere di chiunque venga accusato. «Ci troviamo di fronte a processi che proprio non dovevano essere impostati», dice ancora, intendendo che di norma si dovrebbe procedere con l’archiviazione, invece il procedimento va sempre avanti.
A fronte dell’anomalia, la giustizia si nasconde dietro l’obbligatorietà dell’azione penale, quasi fosse un ordine che non prevede un’ampia discrezionalità. Plausibile ma c’è anche altro: in taluni casi la pressione mediatica e sociale è tale che il giudice non se la sente di rischiare un’archiviazione, e così manda avanti tutto, delegando la patata bollente ai colleghi dopo di lui, su su, fino al giudicante. Così, su cento denunce per stalking, ad esempio, se ne mandano avanti cinquanta per mera prudenza. Ce ne sarebbero altre quaranta almeno da archiviare, ma hai visto mai che lì in mezzo ci sia davvero un persecutore, che magari colpisce ancora e l’inquirente viene poi sbattuto in prima pagina per non aver fatto il suo dovere? E allora via a processo anche se nemmeno si ha certezza che ci sia stato un reato! Ci penserà poi il giudicante ad irrogare altre 40 assoluzioni per arrivare a condanna nei pochi casi veri e circostanziati, appunto una decina su cento. E così per tutti gli altri reati su cui il fenomeno delle false accuse dilaga, intasando la macchina della giustizia e sottraendo spazi alle vere vittime di abusi e violenze. Si tratta di un sistema che è possibile riformare? Padovani non ha dubbi: no. Impossibile avere fiducia oggi, per lo meno con il Parlamento attuale. Insomma, il caso “Eni-Nigeria” ha fatto sì che molti parlassero chiaro su una magagna del sistema giustizia che per molti era già ben evidente. Tra quei molti, anche noi.
Fumo negli occhi per le femministe.
Da tempo, limitatamente al campo delle violenze di genere e dell’uso strumentale delle denunce, segnaliamo come la politicizzazione dei rapporti uomo-donna imposta dalla cultura femminista sia stata capace di creare la “tempesta perfetta”, inoculando nel profondo della società l’idea che tutti gli uomini siano sempre carnefici e tutte le donne siano sempre vittime. Con l’attivo ausilio dei media di massa, la pressione in questo senso non cede mai e a fronte di dati reali comunque insoddisfacenti per loro (un 90% circa tra archiviazioni delle denunce), quel gruppo di potere ha trovato il pretesto per mettere le mani sul cervello dei magistrati e sull’approccio del sistema giustizia, con “corsi di aggiornamento” per le forze dell’ordine e i magistrati, in gran parte ben addestrati a vedere un colpevole in ogni uomo, prima ancora di verificare se ci sia stato davvero un reato. L’humus perfetto per la sopravvivenza di centri antiviolenza e di tutto il grumo di interessi che ruota attorno al fenomeno delle false accuse. L’effetto collaterale è costituito da un enorme numero di uomini incastrati in procedimenti interminabili, dispendiosi e spesso umilianti, sempre grazie all’intervento dei media e della loro smania di avere un mostro per la prima pagina. Un piano falsificatorio molto ben congeniato, verso cui il femminismo è riuscito a far affluire tutti, sebbene non manchino alcune piccole sacche di resistenza.
Lo si vede bene dall’esempio polacco. Sulla scorta di quanto deciso da Ankara, pare che anche Varsavia voglia spingere sull’uscita dalla Convenzione di Istanbul, come già aveva annunciato. Le femministe, già mobilitate contro la nuova legge polacca sull’aborto, mistificano subito l’iniziativa asserendo che il governo vorrebbe «legalizzare la violenza domestica». Al massimo, uscendo dalla Convenzione si legalizzerebbe che quel tipo di violenza non è unilaterale uomo contro donna, ma vaglielo a spiegare alle fanatiche… C’è di più: il governo polacco vuole, una volta uscito dalla Convenzione, introdurre una legge simile a quella russa, secondo cui al primo caso di violenza domestica si riceve un’ammenda e solo in caso di recidiva si finisce davanti alla giustizia. Una proposta sicuramente da discutere nel merito, ma ciò che interessa davvero è la sua ratio: disincentivare quanto più possibile le denunce strumentali o i casi bagatellari. Finirla con donne che presentano denuncia per maltrattamenti perché il marito ha detto che la minestra era sciapa o, assai più frequentemente, per fare l’asso pigliatutto in fase di separazione. Secondo la legge russa, e presto anche polacca, la violenza domestica, da chiunque sia agita, dev’essere comprovata e reiterata, dunque niente più giochetti. Chiaro, anche questa proposta viene vista come fumo negli occhi dalle femministe perché a loro fa gioco che il sistema rimanga quella clamorosa anomalia che è, in Italia e altrove, ma soprattutto che possano continuare a dire, contro ogni logica ed evidenza, che la violenza contro le donne è la più grave, diffusa, specifica e speciale di tutte.