La Fionda

Un po’ di luce sul giro d’affari dei centri antiviolenza

Più volte abbiamo preso posizione contro la realtà dei centri antiviolenza. Riteniamo ingiustificata la loro proliferazione perché l’Italia, numeri (europei e italiani) alla mano, ha un tasso di violenze ai danni della sfera femminile tra i più bassi al mondo. Ciò non significa naturalmente negare l’esistenza di un fenomeno orribile ed esecrabile: significa riflettere sulla sua rilevanza sociale e sulla reale necessità di istituire una rete di assistenza amplissima, destinataria di una gran quantità di denaro pubblico. Un paragone banalissimo: avrebbe senso investire una quantità impressionante di risorse per aprire centinaia di lebbrosari in tutta Italia? Ovviamente (e fortunatamente) no, fermo restando che la lebbra è una malattia terribile e grave, per quanto rara dalle nostre parti. Eppure l’Italia è disseminata di “lebbrosari antiviolenza”, la cui esistenza si basa su un’emergenza che non trova riscontro nei dati, ma viene solo affermata ossessivamente dal lato mediatico. Gli stessi centri antiviolenza non diffondono mai, pur potendolo fare a proprio vantaggio, statistiche verificabili: con il pretesto della privacy delle utenti (motivo risibile in epoca di “Green Pass”), restano abbottonati, affidandosi ai vaghissimi dati forniti periodicamente da “Telefono Rosa”. Tutto ciò fa sorgere qualche dubbio più che legittimo e la carica critica delle nostre osservazioni, in assenza di smentite concrete, resta inalterata.

Alla domanda su quale sia il “giro d’affari” dell’antiviolenza di professione siamo riusciti a rispondere in passato grazie a un “insider” che ci ha mostrato alcuni rendiconti bancari da capogiro, per loro natura ovviamente non pubblicabili. La buona notizia, da questo punto di vista, viene da “Liberamentedonna”, associazione umbra attiva dal 2007, che gestisce un centro antiviolenza e fornisce servizi di formazione e indirizzati ai minori, più una brulicante attività di comunicazione esterna. Sul suo sito è reperibile il link “trasparenza” dove viene pubblicato l’elenco dei contributi pubblici ricevuti nel 2018. Nel timore che, dopo questo nostro articolo, il link venga rimosso, abbiamo scaricato il PDF e aggiunto in fondo alla terza pagina il totale del denaro pubblico ricevuto in quell’anno: 456.804,82 euro. Come abbiamo sempre sostenuto, gli incassi non provengono soltanto da Roma, dal Dipartimento Pari Opportunità o da qualche ministero: gli introiti arrivano da tutte le parti, dall’amministrazione regionale umbra, da alcuni comuni e anche da alcuni soggetti privati, oltre che dal cinque per mille. Quello che davvero colpisce è l’ammontare totale, una cifra che non sfigura di fronte ai numeri di una media-grande azienda. Con la differenza sostanziale che quest’ultima deve depositare i suoi bilanci ed è sottoposta a controlli serrati, mentre il centro antiviolenza, in quanto associazione, non ha l’obbligo di rendicontare un centesimo di ciò che riceve.

Un banale ragionamento sulla resa degli investimenti antiviolenza.

Interessanti sono anche le causali dei versamenti ricevuti: sempre molto generiche e molto spesso legate a “progetti”, che sono poi i meccanismi con cui le regioni erogano finanziamenti mirati. Colpisce, in alcuni casi, il riferimento ad alcune “fatture”, munite addirittura di numero CIG, come richiesto alle normali aziende che adottino una delle forme giuridiche conosciute. Tra le quali però non è compresa la forma associativa, dunque non è chiaro, per lo meno dalle informazioni del sito, chi abbia emesso quelle fatture, a meno che l’associazione non abbia aperto una società di cui non fa menzione pubblica. Ma l’interrogativo chiave in realtà resta un altro, collegato al discorso dei lebbrosari di cui abbiamo fatto cenno all’inizio. Mezzo milione di euro in un anno per un’associazione antiviolenza di una tra le regioni più piccole d’Italia potrebbe anche essere una cifra ragionevole, perché no? Ragioniamoci: si tratta a tutti gli effetti di un eccezionale investimento dello Stato per la prevenzione e la risoluzione di un problema che in Umbria potrebbe essere diffusissimo, gravissimo e devastante. Occorrerebbe averne certezza, per poi valutare la resa dell’investimento. Eccolo dunque il grande interrogativo, che si può articolare in due domande. La prima è: sulla base di quali indicatori si è valutato di erogare mezzo milione di euro nel 2018 a un’associazione antiviolenza umbra? In altre parole: da dove è emerso che il fenomeno della violenza contro le donne fosse così ampio, diffuso e grave in Umbria da richiedere un tale impegno di risorse per una delle associazioni tra quelle presenti sul territorio?

C’è poi necessariamente la seconda domanda, forse anche più importante: quante donne, grazie a quel poderoso investimento, sono uscite con successo dalla loro condizione di vittime di violenza, dopo che tale condizione è stata accertata da una regolare sentenza di condanna per l’autore della violenza stessa? Con mezzo milione di euro messo sul tavolo, ci si attenderebbe di avere certezza come minimo di qualche centinaia di situazioni completamente risolte grazie all’attività dell’associazione antiviolenza. Sarebbe quanto mai utile avere dei dati certi, lo Stato stesso che ha erogato quei soldi dovrebbe chiederli, magari con il dettaglio di come quei denari sono stati spesi, giusto per evitare il fastidioso fenomeno del “paga Pantalone”. Saremmo felici noi per primi di doverci rimangiare tutti i nostri dubbi e sospetti nello scoprire che ci siamo sempre sbagliati e che sì, tutti quei soldi servono, i centri antiviolenza servono, gli investimenti rendono, sono denari ben spesi perché salvano centinaia di donne da intollerabili situazioni di violenza. Purtroppo però, dopo lunghe ricerche, non abbiamo trovato nessun dato, nessun indicatore né precedente né successivo all’erogazione di quella mezza milionata. Il che, con dispiacere, ci rafforza nella nostra idea che i centri antiviolenza siano bolle economiche innescate da un accordo internazionale (Convenzione di Istanbul), come tali prive di giustificazione, dunque utili soltanto a distribuire posti di lavoro e stipendi da parte di una classe politica che opera essenzialmente sulla base di logiche clientelari, a spese di tutti coloro, uomini, donne e famiglie, che con quelle risorse gettate via avrebbero potuto ricevere servizi e assistenza ben più utili e urgenti. Con un’ulteriore domanda-ombra che non possiamo esimerci dal fare: quanti di quei soldi sono serviti a promuovere azioni penali, sostenute da ulteriori fondi pubblici, contro uomini che poi, dopo aver subito un calvario giudiziario, sono risultati innocenti?



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