Si sa che il sonno della ragione genera mostri. Ma è vero anche che sonno del giornalismo genera idiozia. È a tutti gli effetti il caso di un recente articolo uscito su Repubblica (e dove sennò?) riguardante la toponomastica italiana, ovvero il sistema con cui si danno i nomi a vie, strade, piazze eccetera. Il postulato di base è sempre quello, sempre lo stesso, sfiancante, sfibrante e stra-abusato: c’è un streetname gender gap. Troppe poche strade sono intitolate a donne o, per converso, troppe strade sono intitolate a uomini. Segno chiaro e inappellabile della sussistenza di un regime patriarcale, indisponibile a riconoscere al femminile i suoi meriti pubblici. Con un postulato del genere, falso alla sua radice e contraddittorio (se c’è stato il patriarcato, da dove escono tutte le donne eminenti a cui si potrebbe dedicare una via?), inevitabilmente il giornalismo serio si addormenta e parte l’idiozia che, ben condita da profonda malafede, infarcisce tutta la piagnucolante articolessa di Repubblica.
Dietro alle riflessioni c’è naturalmente l’immancabile “ricerca”. Probabilmente cronisti e media mainstream in generale sanno di avere una reputazione infima, quindi non si azzardano più a fare inchieste loro, con osservazioni originali. Fatto sta che anche sulla questione dei nomi delle strade “dice una ricerca” che in Italia siamo ancora all’età della pietra rispetto alla parità nella toponomastica. Cuba, dice l’articolista, conta un 40% di vie intitolate a donne. Il che o è un endorsement per una dittatura comunista, il che sarebbe male, o il caso cubano è giudicato straordinario con il preconcetto che i cubani siano gente da Terzo Mondo, il che sarebbe malissimo in quanto razzista. Idiozia e malafede però vanno ben oltre i meri dati statistici, toccando l’apice nell’interpretazione del gap: le poche donne che hanno una via intitolata, in genere hanno come merito soltanto quello di aver sposato un uomo potente. Si cita il caso di Margherita di Savoia, moglie di Umberto I, secondo Re d’Italia. Dalla tomba, la prima Regina Consorte della nostra storia patria sentitamente ringrazia per essere stata definita implicitamente una nullità. Ma forse Repubblica dice così perché la sovrana era un pelo di destra e perché era riuscita a incarnare la monarchia italiana in modo tale da renderla popolarissima e amatissima. La pizza “margherita”, per dire, è stata chiamata così in suo onore. Secondo lo storico Ugoberto Grimaldi, fu l’unico personaggio dell’Italia unita, insieme a Garibaldi e Mussolini, a suscitare «i maggiori entusiasmi nelle classi elevate e nelle classi umili». Un personaggio unificante insomma. Forse proprio per questo non piace alla sezione “pink-power” di Repubblica.
Non una contesa, ma un abbraccio universale.
Meglio sarebbe dare più rilevanza a personaggi come Marie Curie, dice l’articolo, con ciò nascondendo, ma nemmeno troppo, un bias tipicamente femminista, dunque ridicolo. Perché preferire una scienziata a una regina? Semplice: la prima “contende” un primato maschile, la seconda no. La prima può essere strumentalizzata a scopi conflittuali, la seconda no. Per Marie Curie si può cercare di far leva sul senso di colpa: “ah, vedete! Anche le donne avrebbero potuto eccellere nelle cose scientifiche se gliel’avessero consentito“. Peccato che nessuno l’ha mai impedito: semplicemente era un mestiere rischioso (infatti la Curie morì per l’esposizione alle radiazioni che lei stessa aveva scoperto e di cui, per altro, ha sempre negato la pericolosità…) e come tale le donne si guardavano bene dal farlo, lasciando il “privilegio” agli uomini. Ma tant’è la bugia con la Curie può attecchire, perché è stata una donna artefice, una donna che fa, caratteristica tipicamente maschile. Una regina invece è tale perché è, e lo resta anche senza far nulla, il che è il nucleo centrale della natura femminile. Come tale, non può essere usato come clava contro gli uomini, dunque: evviva Marie Curie, Margherita di Savoia invece cacca.
L’idiozia dell’articolo però va oltre, mantenendo ferma la barra sul disprezzo e insulto impliciti per le donne che non siano di gradimento allo schematismo femminista. Dopo aver vilipeso un importante personaggio storico patrio, dunque, passa a schifare la religione. Sì perché moltissime strade italiane sono intitolate alla Vergine Maria, sotto varie diciture (Madre di Dio, Madre Santissima, e così via) o a svariate sante. Però, dice l’articolo, la Madonna non conta. Si creda o meno alla sua santità, Maria di Nazareth, Madre di Gesù, è una donna di serie B. Essendo santa o parte del credo religioso cattolico, è meno donna di altre. In realtà siamo allo stesso punto della Regina Margherita: Maria non è strumentalizzabile. La predicatrice e incarnazione dell’amore universale e la realizzazione del mito della madre generatrice del Salvatore, non può proprio essere usata come clava contro gli uomini, per recriminare una realtà storica inesistente. La sua essenza, così come quella delle tante sante cui sono state intestate delle strade, non è una contesa contro l’uomo, ma anzi è un abbraccio aperto e accogliente verso tutta l’umanità senza distinzioni, dunque nein, niet, bocciata.
Le quote rosa nella toponomastica?
Quello del piagnisteo per i nomi delle strade è un tema, come tanti altri del femminismo, ricorrente. Ne abbiamo già parlato in passato e torneremo a parlarne ancora, perché le lamentele e le recriminazioni femministe sono cicliche come le stagioni. È una specie di staffetta senza fine tra divario salariale di genere, catcalling, toponomastica, violenza, eccetera. Una pazza ruota fatta girare da un criceto rabbioso che con l’ossessiva ricorsività del chiagni spera ogni volta di strappare un po’ di fotti in più. I media sono di grande supporto in questo: nel suo sonno beota, infatti, La Repubblica si limita a farsi sindacalista in rosa, senza chiedersi se ci sia una ragione per la preponderanza maschile nei nomi delle strade. Che ovviamente c’è. Fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale il mondo in generale era un posto brutale, e più si va indietro nel tempo, più la brutalità si fa estrema. In quelle condizioni a eccellere non potevano essere che gli uomini, geneticamente impostati per affrontare la brutalità. Gran parte delle vie italiane, non a caso, sono sì dedicate a uomini, ma si tratta quasi sempre di morti ammazzati in qualche battaglia o per qualche causa nobile, di cui in allora e ancora oggi le donne godono i frutti.
Lo stesso dicasi per determinate attività: perché tanti pittori, scrittori, musicisti, poeti, filosofi e pochissime pittrici, scrittrici, musiciste, poetesse, filosofe nei nomi delle vie? Semplice: perché fino al 1900 e dintorni si trattava di mestieri poveri o poverissimi, roba da emarginati della società e da morti di fame, che da quella posizione seppero però produrre cose memorabili. Se non che quella della miseria è una posizione che il femminile tendenzialmente non ama. Non a caso le poche donne che nel passato hanno svolto quelle attività, producendo di solito cose non sempre memorabili, il più delle volte venivano da famiglie ricche o benestanti, che permettevano loro di scrivere, dipingere, fare poesia o filosofia, giusto per tenerle occupate. Oppure che avevano sposato uomini ricchi e potenti, che le lasciavano fare per gli stessi motivi. Ad ogni buon conto, ora che il mondo è meno brutale e le donne possono essere importanti anche senza sposare uomini ricchi e potenti, attendiamo di vederle immolarsi in qualche grande impresa o sacrificare la propria vita per qualche grande valore universale, o di ammirare qualche loro strabiliante opera d’arte o del pensiero. Siamo certi che così intendono conquistarsi la maggioranza della toponomastica del futuro, senza piagnucolare per avere anche in quello le loro quote rosa.