La società «vuole controllare le donne come se fossimo uteri ambulanti», «i maschi possiedono le femmine come mezzo di riproduzione e manodopera gratuita», ha dichiarato Gloria Steinem alla consegna del Premio Principe de Asturias 2021 (Spagna). Gloria Steinem è una femminista, attivista, giornalista e scrittrice statunitense, a lungo considerata la voce più influente del movimento femminista della seconda ondata, di sicuro la faccia più nota (e la più carina tra le femministe dell’epoca). Insieme a un gruppo di altre attiviste, nel 1972 è cofondatrice della celebre rivista femminista Ms., un magazine «per le donne e controllato dalle donne». A Gloria Steinem viene attribuito uno degli slogan femministi più dissacranti e di maggior successo dell’intero movimento, “una donna ha bisogno di un uomo tanto quanto un pesce ha bisogno di una bicicletta”. Seppur la frase rimane collegata a Steinem, lei non fu l’autrice originaria, sembra fosse una tale chiamata Irina Dunn. Pro-abortista e contro il matrimonio (come si può dedurre dalla summenzionata frase), all’età di 66 anni ha sposato l’imprenditore David Bale. Predica bene e razzola male. Al di là della sua celebrità e del suo attivismo, in realtà lei non ha offerto nulla al femminismo da un punto di vista teorico, come fecero altre attiviste contemporanee, ad esempio Betty Friedan, Kate Millett o Carla Lonzi. Ideologicamente sterile, lei è stata senza dubbio la figura più in vista, la faccia più bella.
Di recente la sua vita ha meritato la realizzazione di un film. The Glorias è un film del 2020. Cinematograficamente non è un granché, ma a noi interessa il contenuto. Il film fornisce un’immagine idillica del movimento femminista negli anni ’60 ’70, del tutto falsa. Negli anni ’70 all’interno del movimento ci furono lotte spietate, aggressioni e purghe interne che frantumarono la “sorellanza”. Questo particolare viene a mala pena accennato. Inoltre nel film non c’è alcun accenno di un altro aspetto che dominava la scena politica e sociale in quegli anni negli Stati Uniti: la guerra del Vietnam. Il film fa vedere proteste e manifestazioni femministe durante gli anni ’60, nessun accenno in queste proteste e manifestazioni da parte di Gloria Steinem né da nessun altro alle migliaia di giovani coinvolti in questa guerra, agli oltre 50mila giovani caduti e altrettanti feriti e mutilati, ai renitenti alla leva costretti a vivere fuori dagli Stati Uniti per evitare il procedimento penale che si stimano tra i 70mila e i 100mila uomini. Nella pellicola la guerra del Vietnam non esiste. Non so se qualificarlo come un’incredibile svista o come la testimonianza realistica di quello che fu ed è sempre stato l’interesse femminista per le problematiche maschili: noncuranza assoluta. Nei peggiori anni della guerra del Vietnam, la protagonista si preoccupa unicamente degli immensi problemi delle donne, nel film gli uomini e i loro problemi non esistono.
La donna è prioritaria.
È la protagonista a rendere esplicite ad un certo punto le sue intenzioni (e quelle del film): «voglio scrivere del movimento femminista, voglio scrivere del perché il volto del congresso è maschio, e quello del welfare è femmina, perché le casalinghe sono chiamate donne che non lavorano quando lavorano di più e più a lungo per una paga inferiore a qualunque altro lavoratore, voglio scrivere del perché le donne rappresentano il 70% della manodopera nel mondo pagata e non pagata ma possiedono solo il 1% dei beni, voglio scrivere del perché mascolinità significhi dirigere e femminilità comunque obbedire in questa assurda danza della vita». Le problematiche dell’universo maschile non interessano alla protagonista. Nulla di nuovo nell’ideologia femminista. Nel film, per bocca di Gloria Steinem, si fa eco anacronisticamente di uno dei miti più falsi e più assurdi della propaganda femminista: le donne rappresentano il 70% della manodopera e possiedono meno dell’1% dei beni (ad esempio, “le donne lavorano i due terzi delle ore lavorative totali nel mondo, producono metà del cibo, e guadagnano appena il 10 per cento dei ricavi totali e possiedono meno dell’1 per cento delle proprietà globali”, da World Development Indicators, 1997, womankind.org.uk). La protagonista denuncia dei dati stupefacenti in un’epoca durante la quale, ad esempio, la persona più ricca del Regno Unito era la regina d’Inghilterra. Se è vero che nel mondo le vedove vivono di media molti più anni dei loro mariti, ed ereditano le loro fortune, quel meno dell’1% di titolarità di proprietà suona come minimo ridicolo. E per quanto riguarda la percentuale del lavoro svolto basta alzarsi all’alba per vedere in qualsiasi paese occidentale la prevalenza del sesso che lavora nella sorveglianza, nei fornai, nella nettezza delle strade o a distribuire le merci nei supermercati. Non credo che valga ancora la pena perdere ulteriore tempo a smentire dei dati inventati di sana pianta negli anni ’90 senza alcun riscontro obiettivo, dati che sono fuori da qualsiasi logica.
Il femminismo è autoreferenziale, e il regista e la protagonista del film non mancano di ricordarcelo. Dichiara Gloria Steinem nel film: «il maggior indicatore della violenza che esiste all’interno di un paese non è la povertà, non è la mancanza di risorse naturali, non è la religione e neanche il grado di democrazia, è il grado di violenza contro le donne». In altre parole, come diceva il segretario del Pd Pierluigi Bersani nel 2010, elencando «i valori di sinistra»: «la condizione della donna è la misura della civiltà di un paese», al di sopra dei morti sul lavoro, della povertà estrema, delle carcerazioni arbitrarie e illegali, della tortura, ecc. Anche in questo caso penso si tratti di un anacronismo, una licenza che si concede lo sceneggiatore. La questione della violenza di genere, della violenza sulle donne, incomincia a divenire la preoccupazione principale dell’agenda femminista solo dopo la seconda metà degli anni ’70 in poi, a seguito del contributo inatteso di Erin Pizzey. Prima d’allora le questioni sul tavolo erano l’aborto, il divorzio, la carriera lavorativa, il matrimonio e la maternità come nemici… Comunque, al di là della forzatura cronologica, la donna e quello che la riguarda rimangono in vetta sulla scala dei valori. A proposito dell’aborto la protagonista afferma: «Nessuna persona sana di mente è per l’aborto, nessuno si alza la mattina dicendo “ah che bell’intervento mi aspetta”, è veramente l’ultima risorsa, ma la libertà riproduttiva e il diritto di scelta appartengono alla donna, giusto? In realtà, si tratta di essere pro-scelta, niente di più». Dichiarazione molto interessante, da approfondire tra qualche settimana in un futuro intervento sull’aborto.
Non manca il “patriarcato”.
Non mancano accenni alla teoria femminista, all’esistenza di un ancestrale matriarcato intersezionale rovinato dalla nascita del patriarcato (occidentale): «Le culture originali vedevano la presenza del Signore in ogni essere vivente, comprese le donne. Solo negli ultimi 500 o 5000 anni a seconda della zona geografica è svanito il rispetto e la devozione per la natura, per le donne e per particolari razze umane». Oppure alla costruzione dell’eterno femminino: «Gli uomini incarnano l’avventura e le donne l’amore e la casa, ed è stato sempre così. Anche nei racconti ho notato che Dorothy, ne Il mago di Oz, non fa che tentare di tornare a casa nel Kansas, e Alice nel Paese delle meraviglie sogna una lunga avventura ma torna in tempo per il tè». In pratica, la letteratura fornirebbe un modello stereotipato delle ragazze che spingerebbe loro a tornare a casa. Peccato che nella letteratura non manchino modelli più noti e simili di uomini che fanno di tutto per tornare a casa, dal decennale viaggio di ritorno di Ulisse, a Robinson Crusoe, al bambino Bastiano ne La storia infinita, ai componenti maschi di Jumanji, per fare solo alcuni esempi. Si tratta dell’ennesima occasione immotivata per vittimizzare le donne e colpevolizzare gli uomini. In conclusione, The Glorias è l’ennesimo film realizzato a maggior gloria del movimento femminista. Il film ripercorre la vita di Gloria Steinem, una vita meritevole e impegnata a favore dei diritti delle donne, tanto da guadagnarsi il finanziamento e la realizzazione di un film. Un’altra vita esemplare di una femminista a memoria dei posteri. Il ragazzo diciottenne che è morto nella giungla del Vietnam cercando di difendere, giusto o sbagliato che fosse, lo stile di vita benestante che conducevano Gloria Steinem e le altre attiviste, questo ragazzo ignoto invece, ignorato e dimenticato da tutti, in primis dalle stesse femministe per le quali lui in teoria combatteva, non merita alcuna rievocazione né la realizzazione di un film. Ignotus vir requiescat in pace.