È noto ai più: qualche giorno fa, a Rimini, una donna di 40 anni si è suicidata gettandosi nel vuoto, portando con sé nel volo, quindi di fatto uccidendo, anche il figlio di 6 anni. La comunità riminese è sotto shock e il sindaco, Jamil Sadegholaad, decide di inviare un telegramma che fa il giro di tutti i mass media:
Ora però saremmo curiosi di sapere a chi esattamente siano indirizzate tali parole. Tutte le notizie di cronaca riportano il telegramma con l’affettuoso cordoglio del sindaco a nome dell’intera comunità riminese, “dolore e affetto”. Cosa si intende per i familiari della donna? È stato spedito all’indirizzo dei nonni materni o una copia identica è stata spedita anche all’indirizzo del padre? Sarebbe interessante saperlo perché il povero bimbo trascinato dalla madre giù dal terrazzo non era orfano ma, pensa un po’, aveva anche un padre. Bisogna arrivare fino in fondo alle cronache per saperlo, ma ce l’aveva. Nel profluvio di cordoglio, empatia, comprensione, affetto e dolore generale per la donna suicida, il giorno della tragedia c’è anche mezza riga – non di più – sul compagno/padre. «Lascia un compagno, a quanto si apprende padre del bambino».
Il processo di decolpevolizzazione.
Perché tanta freddezza? Semplice, perché comunque la deriva antimaschile non abbandona inquirenti e cronisti, la prima cosa da verificare è se vi siano accuse, anche retrodatate di anni, a carico del padre. È un uomo quindi non può essere esente da colpe, qualche responsabilità deve averla per forza, la cultura del sospetto sul padre-orco garantisce letture, click, contatti, commenti. Poi però, con un certo rammarico, bisogna ammettere che la pista “si è uccisa per fuggire da un uomo violento” non porta da nessuna parte: «Non pare ci sia una storia di maltrattamenti dietro al terribile gesto della donna». Mannaggia… Forse erano già pronti i titoloni sull’ennesimo femminicidio?
A chi indaga appare subito evidente che la donna, Graziana Todaro, abbia premeditato il gesto. Non si è trattato di un raptus improvviso, lo testimoniano i biglietti di scuse trovati nella borsa. Tragedia nella tragedia, ha anche premeditato di uccidere il figlio trascinandolo con sé nel volo fatale. Non è una scelta casuale, né obbligata per mancanza di alternative: avrebbe potuto lasciare il bambino dai nonni come faceva abitualmente e poi gettarsi dal terrazzo tre minuti dopo. Condividiamo l’empatia per la povera Graziana che pensa di poter uscire dal vortice di depressione solo togliendosi la vita, ma non possiamo condividerla quando sceglie di uccidere anche il figlio. Tuttavia si tratta di una mamma, quindi un’opinione del genere non si può esprimere. Si può dire solo quando il disperato che uccide e si uccide è il padre, in quei casi nessun sindaco spedisce telegrammi, nessuna testata sciorina mielosa comprensione, sui social imperversano commenti all’insegna del “se non hai il coraggio di vivere ammazzati te, bastardo, che c’entrava quella povera creatura?” Il padre assassino va condannato senza sconti, la mamma assassina va capita e non giudicata. Che scatti subito ad ogni livello, specie quello mediatico, una procedura di decolpevolizzazione, se si tratta di una donna, è evidente. Ad esempio, alcune fonti preferiscono parlare prudentemente di “luogo dell’incidente”, come se invece di un gesto volontario si trattasse di una caduta accidentale.
Il contributo tossico della politica.
In altri casi è evidente che a qualcuno spiaccia un po’ che non si possa parlare di un compagno violento, visto l’uso e l’abuso dei “pare” e dei “per ora”.
Oppure ancora in questo video: «impossibile sapere se il bambino si sia reso conto di quello che stava succedendo, o la mamma lo avesse stordito con qualche farmaco», dice la giornalista. Ma è sbagliato, non è affatto impossibile, le autopsie servono proprio a verificare tali aspetti.
Si tratta solo di una malsana abitudine giornalistica, o tale asimmetria ha radici istituzionali? Mettiamo a confronto due articoli sui figlicidi in Italia che abbiamo in archivio, entrambi datati luglio 2023. Il dato del totale è identico: 535 bambini uccisi dai genitori in vent’anni. La vistosa divergenza arriva al momento di verificare chi siano gli autori: per la Senatrice Valeria Valente, manco a dirlo, gli assassini sono i padri nell’87% dei casi, invece per l’ANSA oltre il 50% sono le madri a uccidere. Non è chiaro se le madri assassine siano il 57, il 55, il 53 o “solo” il 51%, ma c’è una prevalenza femminile tra i soggetti che uccidono i figli. Com’è possibile una tale mistificazione sullo stesso dato di 535 vittime? Non solo la Senatrice aumenta sic et sempliciter la percentuale degli uomini criminali portandola ad oltre il doppio di quanto riferisce l’ANSA (o è l’ANSA che li dimezza?), è interessante anche notare le motivazioni con le quali avvalora la sua narrazione: «l’87% dei responsabili dei figlicidi è costituito da uomini, essenzialmente padri, e la quasi totalità è italiana. Il 13% è imputabile alle madri, le cui motivazioni sono quasi tutte riconducibili a situazioni di violenza/sofferenza o di pericolo, in molti casi più volte denunciate e non considerate. Il figlicidio paterno rappresenta invece quasi sempre una vendetta trasversale di uomini contro le proprie ex». In sintesi: quando a uccidere è un padre (e sono tantissimi) è un criminale vendicativo, quando a uccidere è una madre (ma sono pochissime) la colpa va cercata sempre nei padri. Una persona con tali incrollabili certezze è da ammirare e sarebbe interessante sapere da cosa derivi l’accanimento antimaschile in generale e antipaterno in particolare che ostenta da anni, sempre e invariabilmente contro i dati della realtà.