Un suicidio è sempre un evento tragico, una resa, una sconfitta per tutti quindi anche per la struttura carceraria che – in teoria – dovrebbe tendere al recupero di chi nella vita ha compiuto errori penalmente perseguibili. Massima empatia, dunque, per il dramma di Elena Scaini che si è tolta la vita la notte tra domenica 2 e lunedì 3 marzo. Elena era in carcere a Mantova, stava scontando la pena di 18 anni per l’omicidio del marito, Stefano Giaron. Ciò non significa che la vita di chi sta scontando una pena sia meno preziosa di altre; tuttavia una macroscopica differenza salta agli occhi proprio per la diversità di trattamento mediatico tra detenuti e detenute. Decine di uomini si tolgono la vita ogni anno in carcere, eppure mai una sola volta è capitato di leggere articoli mielosi che ne esaltano le qualità e ne tessono le lodi; mai è capitato di leggere l’accorato rammarico di educatori e direttori carcerari che hanno conosciuto il suicida.
La notizia solitamente si dà nuda e cruda, senza fronzoli, al massimo facendo rilevare il fatto che i casi di suicidio in carcere non accennano a diminuire. Nel caso di Elena invece no. Sconforto e smarrimento trasudano da tutto il testo dell’articolo, tra chi dice di essere “frastornata” e chi “profondamente addolorata”. Si esprimono la garante dei diritti delle persone detenute, l’educatrice personale, la direttrice del carcere, la volontaria del Centro Solidarietà: emerge che Elena aveva nella casa circondariale la sua famiglia e si sentiva protetta, di ritorno dalle udienze diceva “torno a casa”; anche il suo cane era ammesso ai colloqui; poi sono molto addolorate anche le compagne di sezione; aveva uno spiccato talento artistico nella poesia e nel disegno, era sensibile, preziosa ed anche altruista, si preoccupava dei bisogni delle sue compagne.

Il doppio standard carcerario.
Inoltre frequentava un laboratorio dedicato alla poesia: «Elena aveva portato i testi del suo cantante preferito, Mango, in particolare amava le parole di “Come l’acqua”. Ci scambiavamo osservazioni su quello che leggevamo e, alla fine, abbiamo raccolto versi, pensieri e poesie in un libretto. È stata lei a dare un nome a quel nostro momento, due ore ogni martedì mattina. Quale? Gabbia-no. L’aveva anche disegnato sulla copertina. Un disegno splendido. Elena ti guardava dentro, era dolce e attenta alle persone». La chiosa: “Ali fragili e occhi d’artista”. Tutto molto bello ma, come sempre, unidirezionale, selettivo in chiave gender oriented. Mai una sola volta abbiamo letto un decimo di tali appassionati complimenti per un detenuto che ha scelto il suicidio; eppure nella maggior parte dei penitenziari italiani vi sono frequentatissimi laboratori teatrali, corsi di musica, lingue, scrittura, piccolo artigianato e persino cucina. In carcere c’è chi studia ed anche chi è riuscito a riprendere un corso interrotto e terminarlo conseguendo il titolo.
Mai nessun peana per un detenuto che opta per il suicidio, i particolari che emergono al massimo – ma neanche sempre – sono sulle modalità del cosiddetto ”gesto estremo”: se ha usato strisce di lenzuolo, una busta di plastica o altro. Un solo precedente, a memoria d’uomo, registra la posizione ufficiale di un rappresentante delle istituzioni, il magistrato Vincenzo Semeraro. Era il 2 agosto 2022, nel carcere veronese di Montorio si toglie la vita Donatella Hodo, detenuta per reati legati alla tossicodipendenza. Il dr. Semeraro è giudice di sorveglianza, prende parte al funerale della ragazza e legge pubblicamente una lettera con la quale chiede scusa a Donatella, si sente in colpa per “non aver fatto di più”. L’unico precedente quindi è, ancora una volta, dedicato ad una donna. La visione woman friendly del Dr. Semeraro viene ribadita in varie interviste, ad esempio il 10 agosto dichiara ad Enrico Ferro di Repubblica: «Io penso che il carcere, così com’è, sia pensato per gli uomini e non per le donne. Perché tende a contenere la violenza e l’aggressività, che sono caratteristiche tipiche dell’uomo». Il carcere invece è una struttura pensata per gli uomini, infatti se ne suicidano “solo” una sessantina ogni anno.