Qualche anno fa ebbi una polemichina con “Gayburg”, un blog che, probabilmente imbeccato da qualcuno, aveva lanciato un delirante e mistificatorio attacco contro questo sito al quale indegnamente collaboro, definendolo, tra le altre cose, “il sito dei misogini”. Fantasia portami via. Si tratta di un blog di “informazione, attualità e cultura gay” (seh, “cultura”, vabbè) che produce ogni giorno sei-sette virulenti articoletti contro svariati bersagli ricorrenti con un livore che manco Bin Laden, e con qualche jolly/bonus ogni tanto di annunci del tale fregno che si mostra nudo da qualche parte, unica cosa degna di un qualche interesse “culturale”. Un portatore di amore universale, insomma. È un blog che a leggerlo viene il sangue agli occhi, non tanto per i contenuti miserrimi sparati da titoloni improbabili stile “Cronaca Vera”, quanto perché l’anonimo e mai identificato inattrezzato che lo gestisce li espettora con una tale velocità da catena di montaggio che non si ferma nemmeno per controllare gli errori di battitura. Voglio sperare che l’inattrezzato di cui sopra sia uno solo, perché un caso umano in libertà è un’eccentricità, due cominciano a essere un’eccezione, tre sono già un’emergenza, altro che “femminicidio”.
Questa furibonda frenesia di consegnare all’etere le proprie deiezioni dà quasi l’impressione che l’analfabeta in questione abbia delle scadenze e voglia sbrigare una seccante formalità giornaliera più in fretta possibile per poi andare a fare l’apericena o qualche balletto su YouTube, quasi come se (e ripeto: quasi “come se”) fosse a contratto. Tesoro mio, figurati se non ti capisco, lo so che le deadline sono una grande rottura di coglioni. A me già a partorire aggratis un articolo ogni due settimane viene l’orchite, con tutto quello che ho da fare, però porcoggiuda, almeno due parole in fila mettile, non puoi costringere chi ti legge all’ordalia telematica di ricavare “lui” una frase di senso compiuto dal tuo flusso di incoscienza.
Ma quale accanimento giudiziario?
Ad avvalorare questa strana sensazione di timbratura di cartellino è il rapporto tra follower e interazioni: su Facebook (sì, ci sono su quello schifo di social, ma non sperate che vi dia il mio contatto) non più di una ventina di reazioni a post nei casi più “popolari” (con tanto di elegantissima esultanza per la morte di Anita Bryant e uno o due commenti su oltre 16500 follower, sul blog pure un commento ogni morte di papa (scusate, non l’ho detto apposta). A pensar male si fa peccato, ma gioia mia, davvero devo credere che questo sforzo inane e improduttivo tu lo faccia a gratis e non sia foraggiato da qualcuno che poi magari ti istiga a colpire alla cieca? Mah. Perché se è così, contento tu contenti tutti, però sei quantomeno un po’ fessacchiotto.
Vabbè, comunque, un mesetto fa “La Fionda” scopre che anche ‘sto Gayburg sarebbe stato “sommerso di querele”, non si sa quanto fondate, ed esprime solidarietà. Silenziare una persona con querele pretestuose è sempre una roba da infami, figuriamoci un intero sito, e figuriamoci se non lo sappiamo noi che scriviamo sul sito più perseguitato d’Italia, ma qui la cosa mi puzza. A chi ha le spalle coperte (e come ho scritto, ho i miei motivi per sospettare che Gayburg le abbia) le querele fanno un baffo, e vado a leggere meglio. “Le querele” in questione sono una sola (e nemmeno così infondata, tra l’altro) la cui archiviazione viene annunciata trionfalmente con squilli di tromba (honni soit qui mal y pense) dall’inattrezzato. Ma di che stiamo parlando? All’accanimento giudiziario che ha ricevuto questo blog non ci andiamo nemmeno vicino, non siamo neppure nella stessa costellazione. Di che cazzo stiamo parlando? Sto per prendere il telefono e chiamare il precedente proprietario della “Fionda” per chiedergli quand’è che ha iniziato a fare i rave con i farmaci scaduti, quando mi ricordo che, per l’appunto, non è più il proprietario del sito. Sticazzi, lo chiamo lo stesso, e lui mi dà l’unica risposta che può darmi: “Domenico, perché non ne fai un articolo?” Fregato. Ben mi sta.
Io non sono solidale con GayBurg.
E l’articolo eccolo qui. E quindi alla fine della fiera, no, ma proprio no: io mi dissocio e non sono solidale con Gayburg manco per un cazzo. Non sono solidale prima di tutto perché quel blog sussiste vendendo (spero solo in senso figurato) una merce, e quella merce, come in tutti i casi simili (molti dei quali a fatturato), sono io. Non sono solidale perché sono stufo di essere un oggetto di marketing per gente a cui dei miei reali diritti frega meno di zero. Non sono solidale perché quel sito è una monumentale discarica, per quanto senza seguito, di disinformazione, di balle, di incessanti e sfiancanti falsificazioni delle ragioni altrui; e questa è la cosa più infame che si possa fare, più infame persino delle querele.
E soprattutto, non sono solidale perché Gayburg, a sua volta, non ha esitato minimamente a minacciare querele di ogni tipo contro chiunque, me compreso. Anche se non si sa se a qualcuna di queste minacce a vuoto abbiano mai dato seguito (a proposito, la sto ancora aspettando, e il mio avvocato, gay anche lui, sta ancora ridendo), non importa: è l’intenzione che è infame. Non ci si nasconde dietro la “libertà di espressione” solo quando ti fa comodo, tesoro. Non funziona così. Ed è finito il tempo della pazienza con i bulli, i teppisti, gli squadristi, virtuali e non. Incluse le femministe: con cui spesso, da parte di rappresentanti autorevoli, che stimo, sento ancora ricercare un qualche “confronto” o “dialogo”. E questo sarà un altro capitolo.