di Santiago Gascó Altaba. Simone de Beauvoir è la “madre del femminismo”, titolo onorifico che le concedono molte femministe e i mezzi stampa principali, come il Corriere della Sera o El País (il giornale a più alta tiratura in spagnolo). Se fate una ricerca congiunta su Google in lingua italiana per le voci “Simone de Beuvoir” e “madre del femminismo” otterrete circa 43.000 risultati. Dunque si tratta di un apprezzamento importante del mondo femminista al suo contributo come teorica ispiratrice e caposcuola. Lei è l’autrice dell’opera che a sua volta è stata definita da molte “la Bibbia del femminismo”: Il secondo sesso. Come vedete, ammirazione, riverenza e rispetto da parte delle epigone femministe. Eppure, da un po’ di tempo la sua memoria non gode di buona salute, sta pian piano degenerando. I punti critici sono principalmente due.
Da un lato il presunto collaborazionismo con i nazisti nella Francia di Vichy durante la Seconda Guerra Mondiale, alla pari tra l’altro del suo compagno di vita Jean Paul Sartre – anche se sarebbe più corretto parlare per entrambi di completa indifferenza. De Beauvoir trascorre questi difficili anni tra caffè, vacanze sciistiche e feste, mentre lavora e collabora dal 1943 a Radio Vichy, radio collaborazionista. In fondo, “il fallait bien vivre” dirà a questo proposito de Beauvoir anni dopo. Sulle persecuzioni degli ebrei, di cui lei è testimone, nessuna presa di posizione, ne parla poco e con relativa indifferenza. Lei scrive con cinismo a Sartre su Bianca Biennefeld, la sua ex amante ebrea: “Vaticina come una Cassandra, esitando fra il campo di concentramento e il suicidio”. Per sfuggire la persecuzione Biennefeld si dovette nascondere nel Vercors. Né de Beauvoir né Sartre cercarono di aiutarla, nemmeno tentarono di sapere che cosa le era successo. Per ulteriore approfondimento su questo punto consiglio l’articolo de La Stampa di Domenico Quirico, non più disponibile in rete ma che potete trovare qui o qui.
Da questi autori-predicatori sì è lecito pretendere un minimo di coerenza.
L’altro aspetto polemico riguarda il suo atteggiamento verso la pedofilia e il ruolo di ʻmangiabambineʼ agito a favore del suo compagno sentimentale Sartre. Nel 1943 de Beauvoir chiuderà la propria carriera di docente, licenziata e interdetta a vita dall’insegnamento per corruzione di minore, per una relazione lesbica con una delle sue studentesse. Nel 1977 il giornale Libération pubblica il “Manifesto in difesa della pedofilia”, che chiede la depenalizzazione delle relazioni sessuali tra un adulto e un minore di meno di 15 anni. Tra i firmatari, oltre Jean-Paul Sartre, anche ʻla madre del femminismoʼ. L’accusa di ʻmangiabambineʼ arriva più tardi, dopo la sua morte, da una delle sue vittime, Bianca Lamblin, che scrive un libro, Mémoires d’une jeune fille dérangée (Memorie di una ragazza disturbata). Lei afferma di essere stata vittima da minorenne “degli impulsi dongiovanneschi” di Sartre e della sua professoressa di filosofia Simone de Beauvoir, accusando quest’ultima di aver svolto il ruolo di mezzana per procurare al suo compagno “carne fresca”, ovvero giovani fanciulle da lei “pregustate” prima di rifilargliele. A supporto allega documentazione e lettere. Per ulteriore approfondimento su questo punto consiglio l’articolo Sartre e Simone ʻmangiabambineʼ de La Repubblica di Elena Guicciardi del 5 febbraio 1993.
Non credo che la genialità di qualcuno nei più diversi ambiti, culturale, artistico, scientifico o sportivo, debba essere giudicata in base alla sua moralità in vita o alla sua salute mentale. In pratica, non mi interessa sapere se Nietzsche, Van Gogh o John Nash erano mezzo svitati per poterli riconoscere come geniali filosofi, pittori o matematici. Né mi interessa ricostruire le biografie degli illustri del passato, sport che il femminismo ha reso molto popolare, bollando spesso questi eminenti uomini con il marchio di misogino o di maschilista, con lo scopo di sminuire il loro talento. Einstein rimane un genio nel suo campo al di là del suo comportamento privato. Il valore della scrittrice Simone de Beauvoir dunque non lo danno i suoi peccati. Un’opera d’arte, un romanzo non si giudica dalla biografia dell’autore. Ma c’è un ambito che rimane estraneo a questo ragionamento: le opere di evangelizzazione, le opere di convincimento e diffusione di valori. Il secondo sesso non è un romanzo, è un saggio che giudica il mondo sotto un prisma di nuovi valori, che stabilisce colpevoli e innocenti e divulga una nuova fede. Le accolite del femminismo non l’hanno definito il De Revolutionibus Orbium Caelestium (scienza) o la Ricchezza delle nazioni (economia) o la Critica della ragion pura (filosofia) o l’Iliade (letteratura) del femminismo, l’hanno definito “la Bibbia del femminismo” (religione). Una fede. Da questi autori-predicatori sì, è lecito pretendere un minimo di coerenza tra quanto propagano e il proprio vissuto, in qualche modo unico metro di misura dell’onestà e dell’imparzialità dell’autore all’ora di giudicare il mondo e di offrire il proprio punto di vista evangelizzatore.
Guardatevi dai falsi profeti.
Con quale autorevolezza autrici femministe come Wollstonecraft o de Beauvoir possono criticare l’amore-schiavitù delle donne se subito dopo mettono in atto anche loro stesse gli stessi comportamenti? “Nel febbraio del 1947 incontra lo scrittore americano Nelson Algren, mentre si trova negli Stati Uniti per un giro di conferenze, e la relazione comincia subito. Tre mesi dopo, tornata in Francia, Simone scrive ad Algren quasi ogni giorno, chiamandolo ʻmio amatissimo maritoʼ, ʻmio adorato marito senza matrimonioʼ, ʻmio marito coccodrilloʼ, dicendo di se stessa, ʻvostra moglie per sempreʼ, ʻla vostra moglie ranocchiaʼ. Il suo capolavoro, Il secondo sesso, verrà pubblicato nel 1949. Come nel caso di Wollstonecraft, questi comportamenti femminili saranno oggetto di un’aspra critica. In pratica, di mattina, sotto il sole, Simone de Beauvoir scriveva la sua accusa contro il mondo maschile, mentre di sera, sotto il chiaro di luna, si rivolgeva al suo amante con quel linguaggio da adolescente femminetta innamorata e soggiogata che fa rivoltare lo stomaco a qualsiasi femminista doc”. (in La grande menzogna del femminismo, pp. 117-118)
Quale credito può avere de Beauvoir, dunque, quando giudica gli altri e scaglia la prima pietra? Non mette in atto anche lei i comportamenti che addebita agli uomini? Con quale autorevolezza si erge a giudice, condanna gli uomini e assolve sé stessa e tutto il sesso femminile in quanto donne? Quale empatia per la sofferenza maschile potrà dimostrare ʻla madre del femminismoʼ, che non riesce nemmeno a dimostrarla per quelle che lei stessa chiama consorelle? In che modo una persona talmente cinica di fronte alla sofferenza altrui, tra l’altro di una congenere come era Bianca Biennefeld, riuscirà a definire imparzialmente la sofferenza “dell’altro”, la sofferenza maschile? Il marcio che giace nel cuore del profeta non sporca il proprio messaggio? Come può essere immacolata una religione basata su un pensiero corrotto? Il marcio che giace nella nuova religione non è della stessa sostanza del marcio del profeta? “Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete”. (Mt 7, 15-16)
Un mondo capovolto.
Per concludere vorrei menzionare brevemente quell’argomento che oggigiorno monopolizza tutte le preoccupazioni femministe e le agende politiche: la violenza di genere. La violenza esercitata in un rapporto di coppia dagli uomini sulle donne per assoggettarle al patriarcato, è un magnifico esempio sociologico della creazione artificiale di un concetto inesistente mediante la propaganda e la manipolazione mediatica sistematica. Prima della sua “scoperta” all’inizio degli anni ’70 da Erin Pizzey, che femminista non è, questo gravissimo e onnipresente problema non esisteva, nemmeno nelle teste delle femministe storiche. Ho già segnalato quanto sia sbalorditivo che l’insigne femminista Betty Friedan nella sua celeberrima opera La mistica della femminilità ignori completamente l’argomento, malgrado il libro parli proprio della vita domestica delle mogli. Anzi, a parlare proprio di violenza, della violenza di lei, fu il marito. Ecco adesso le parole di un’altra insigne femminista, Simone de Beauvoir, descrivendo il comportamento della madre nei confronti del padre nel suo romanzo autobiografico Una morte dolcissima. Di nuovo, un mondo capovolto: “…schiaffi, urlatacce, scenate, non soltanto nell’intimità, ma perfino in presenza d’invitati. – Françoise ha un carattere di cane rabbioso, – diceva babbo. E lei riconosceva di ʻmontarsiʼ facilmente. Ma si sentiva ferita a fondo se veniva a sapere che qualcuno aveva detto: – Françoise è così pessimista! – oppure: – Françoise è diventata nevrastenica.” (Una morte dolcissima, Club degli editori, Milano, 1968, p. 198).