È sorprendente – o forse non lo è nemmeno più – vedere il grado di inquinamento sessista dell’informazione, e ci riferiamo alla discriminazione sessista antimaschile. A Milano un uomo muore con la gola tagliata e tutti gli organi di informazione, ma proprio tutti tutti, si precipitano a dire che: 1) la lite era avvenuta in macchina, 2) il marito aveva aggredito la moglie, poi lei è riuscita a disarmarlo e lo ha colpito più volte, 3) la donna vagava in stato confusionale, 4) era ferita ad una mano ed aveva gli abiti sporchi di sangue. Secondo un copione mediatico consolidato la colpa è sempre del morto, per cui i cronisti si sono scapicollati a riferire che la persona uccisa era incensurata. Peccato. Visto che è morto perché la moglie si è solo difesa in quanto l’aggressione col coltello l’aveva iniziata lui, sarebbe stato meglio un criminal profile da violento incallito, magari con precedenti per risse da bar, violenza da stadio, percosse, lesioni, almeno qualche maltrattamento in famiglia o stalking. Invece niente: anche se a malincuore, bisogna ammettere che non aveva precedenti.
Potrebbe sembrare strano che chiunque, sia chi indaga che chi riporta le notizie, scavi nei precedenti penali del morto e non di chi l’ha ammazzato. Invece non è strano perché accade solo quando l’assassina è una donna e la vittima un uomo, quindi testimonia gli stereotipi sessisti che condizionano gli inquirenti, la stampa, le tv e le testate online. Lei è incolpevole inquantodonna, questo è il metamessaggio immediato: la moglie può essersi solo difesa perché l’aggressività è una prerogativa esclusivamente maschile. Insomma un femminicidio annunciato, solo che stavolta la vittima designata riesce a ribellarsi, disarma il proprio aguzzino e gli infligge la giusta punizione. Lo definiamo protocollo Sciacquatori, e chi segue questo portale sa di cosa stiamo parlando. Lorenzo Sciacquatori era un ex pugile, dedito all’alcol, senza un lavoro fisso… quindi è stato giusto da parte della figlia Debora assassinarlo con una pugnalata alla nuca perché lei era bella, giovane e andava bene a scuola. Legittima difesa, assolta a furor di popolo con l’immediato appoggio di media, politici e procura prima ancora che iniziasse il procedimento penale.
Che fine fanno tutte le certezze della prima ora?
Ovviamente stiamo estremizzando il concetto, ma il filo conduttore è questo: bisogna estrarre tutte le caratteristiche negative del morto e contrapporle alle caratteristiche positive di chi l’ha ucciso, per cui se è buona, brava e bella ha fatto bene a pugnalare quello brutto, sporco e cattivo. Non riusciamo a leggere in altro modo la precisazione fatta da tutti che la vittima di Milano, Roberto Iannello, fosse incensurato (“mannaggia” nessuno lo ha scritto, ma non escludiamo che in molte redazioni lo abbiano pensato). Altro bug ricorrente nella cronaca nera è la terminologia che viene usata a seconda del genere di autori e vittime. Quando muore l’uomo si parla sempre di “lite”, quando muore una donna è barbaro accoltellamento, brutale aggressione, inaudita violenza. Non necessariamente quando ci scappa il morto, anche se il ferito sopravvive ogni accoltellamento per mano femminile è sempre “lite in famiglia”, ne abbiamo in archivio a centinaia. È un linguaggio subliminale che ha effetti concreti sul lettore medio: la teoria del litigio divide a metà le colpe, l’aggressione le scarica invece su uno solo dei soggetti coinvolti: il litigio lascia intendere un esito non voluto, una fatalità, mentre l’aggressione sottintende una precisa volontà di offendere, compresa la premeditazione.
Un esempio tra i tanti che hanno dato la notizia nello stesso modo è questo. Litigi frequenti, sempre però con l’uomo che attacca e la donna che si difende, in casa chissà quante volte lui l’avrà minacciata con un bastone, una cinghia, un martello… stavolta invece la lite avviene in macchina e, ancora lui, estrae un coltello. L’uomo è sempre colpevole, anche quando soccombe. Sorvoliamo sull’accuratezza dei fatti raccontati dai professionisti dell’informazione: per qualcuno la vittima era agonizzante in macchina, per altri era uscito per inseguire la moglie mentre tentava di tamponare l’emorragia dalla gola, per qualcuno la moglie vagava nei pressi, per altri si era allontanata di un chilometro, per qualcuno la donna ha sferrato una coltellata, per altri per quattro, per altri ancora per otto. Poi lunedì 14 le indagini arrivano ad una svolta: la donna si era portata il coltello, è omicidio premeditato. Ah però! Tgcom24 riferisce che: «Il pm di Milano Francesca Giulini ha chiesto al gip Sara Cipolla la convalida dell’arresto e la misura cautelare in carcere per Lucia Finetti, la donna che sabato ha ucciso con otto coltellate il marito, Roberto Iannello, 55 anni, dopo una lite in auto a Milano. L’accusa formulata dal pm è di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione. La 52enne domenica si è avvalsa della facoltà di non rispondere». Che fine fanno tutte le certezze della prima ora? Per ora Lucia Finetti non ha voluto rispondere alle domande della pm, ma ha già recitato la formula magica: “legittima difesa”. Dice di non ricordare nulla di ciò che è accaduto, era sotto choc, tuttavia se il marito è veramente stato ucciso da lei non può trattarsi che di legittima difesa, lei è la vera vittima che ha subito l’aggressione. Attendiamo, forse farà altre dichiarazioni interessanti dopo essersi consultata con gli avvocati.