Due giorni fa abbiamo suggerito la possibilità di apportare due piccoli ma importanti correttivi all’attuale disciplina di separazioni e affidi, ovvero alla Legge 54/2006. La prima proposta era quella di rendere obbligatoria, nell’ambito di una separazione giudiziale, la consulenza di un commercialista nel caso uno dei due separandi fosse un lavoratore autonomo o un imprenditore, in modo da avere una riconciliazione corretta tra il reddito fiscale e la disponibilità finanziaria reale del soggetto, dando al giudice cifre esatte e veritiere su cui stabilire l’eventuale assegno di mantenimento. La seconda più che una proposta era un auspicio: una direttiva del Ministero della Giustizia che obblighi i tribunali civili d’Italia ad applicare la legge in coerenza con la sua ratio, ovvero rispettando al massimo possibile il principio della bigenitorialità, ma soprattutto smettendo di considerare l’assegno di mantenimento come uno strumento di redistribuzione della ricchezza, e di trasformare così gli ex mariti in uno strumento di welfare privato, laddove eventualmente dovrebbe intervenire il welfare pubblico. Ma non è tutto, c’è una terza proposta che, alla luce dei dati e delle possibilità tecnologiche, potrebbe essere avanzata e trasformata in legge, a integrazione delle norme vigenti.
Il presupposto è che, discutibile o meno che sia (e per noi lo è sotto diversi aspetti), la parte femminile della coppia ha il dominio assoluto sul processo procreativo, quello che esita in un soggetto, il figlio, che poi in caso di separazione diventa un punto dirimente, oltre che la causa di moltissimi dissidi e moltissime sofferenze. È noto che il principio “my body, my choice” (il corpo è mio, dunque decido io) fa sì che sia la parte femminile a decidere se un figlio vedrà la luce o no, mentre la sfera maschile non ha alcuna voce in capitolo. Di più: lo sbilanciamento tra le due parti, che pure concorrono paritariamente alla generazione della prole, arriva a essere soverchiante per la donna in alcuni casi limite. Oltre a poter abortire, infatti, quand’anche decidesse di portare a termine la gravidanza per poi liberarsi del bambino, può farlo in totale anonimato presso ogni nosocomio italiano, anche in presenza di un padre magari disponibile a prendersene cura in esclusiva. Quest’ultimo, nel caso, non può reclamare nulla: perde il bambino per decisione unilaterale. Il privilegio di potersi sottrarre alla responsabilità genitoriale, per di più, è solo femminile: l’uomo in nessun caso può chiamarsi fuori. Se ci prova, può tranquillamente essere forzato dalla prova del DNA, rifiutando la quale viene considerato de jure e de facto, il padre naturale del bambino, con tutti gli oneri del caso. Insomma: ogni via d’uscita è aperta per la parte femminile, mentre la parte maschile è chiamata sempre a subire le decisioni altrui e rimane chiusa in una gabbia dove la sua volontà (ma non il suo conto in banca) vale zero.
Lo strapotere di una parte genitoriale-procreativa sull’altra.
Si è detto che la tecnologia ormai interviene a livelli profondissimi anche su questi processi e che si dovrebbe prendere atto di ciò. È un fatto di cronaca recente che la donna abbia potere assoluto anche quando il figlio in potenza risiede fuori dal suo corpo, ovvero in un contenitore criogenico. Anche in questo caso, è stato sentenziato, il potere è in capo alla donna, sebbene il suo utero non sia più al centro della questione: se vuole, può dare l’avvio alla gravidanza con l’impianto dell’embrione, anche contro il parere dell’ex marito, che dovrà farsi carico di un figlio non più voluto con quella singola donna. Non è una prospettiva irrilevante: segna un punto di sbilanciamento in più, impossibile da accettare e tollerare per principio, che certifica la parte maschile della procreazione come una mera banca prima del seme, poi di risorse finanziarie, spossessata di ogni facoltà di opporsi o di vedere presa in considerazione la propria volontà e i propri diritti. C’è però un altro aspetto tecnologico che entra in campo in questo senso: scardinato oggi il principio “my body, my choice”, da tempo è stato scardinato anche l’altro adagio valido per secoli: mater semper certa est, pater numquam (la madre è sempre certa, il padre mai). In particolare l’esame del DNA è arrivato a spazzar via la seconda parte del proverbio latino. Oggi anche il padre può essere sempre certo, con un esame semplice e poco dispendioso.
Qui però si entra in un campo misterioso e oscuro. Abbiamo cercato ovunque, in Italia e all’estero, qualche statistica affidabile sul numero di test del DNA che vengono effettuati per l’accertamento della paternità e abbiamo trovato davvero poco. Usualmente si fanno quando si tratta di stabilire a chi vada o no una certa eredità, più di rado (ma in un numero superiore a quanto si possa immaginare) quando un padre non vede se stesso negli occhi del proprio figlio e decide di andare a fondo. Abbiamo letto storie di uomini a caccia di un capello, per portarlo ad analizzare, per poi scoprire che no, quell’essere amato, accudito e cresciuto per anni non è suo figlio, ma porta in sé i geni e le caratteristiche di qualcun altro. Lo shock è devastante, lo si può facilmente immaginare. È uno shock multistrato in cima al quale si pone lo sconvolgimento di sapere di non avere un figlio, seguito dallo sbigottimento per essere stato defraudato, per arrivare infine a comprendere il fatto tutto sommato meno grave, ovvero di essere stato tradito dalla moglie, sia in senso sessuale che in senso etico. Le statistiche che abbiamo visto, tutte non ufficiali, frutto di osservazioni di medici o cliniche che fanno l’esame del DNA, parlano di una quota di casi di “deceived paternity” (paternità frodata) che si aggira tra il 10 e il 45% dei casi. All’asimmetria pressoché totale dei processi procreativi a favore della sfera femminile, si aggiunge dunque un’ipotetica quota di truffe di proporzioni più che preoccupanti e che paiono essere da un certo punto di vista anche una conseguenza dello strapotere di una parte genitoriale-procreativa sull’altra.
Test DNA obbligatorio: una legge magari pure retroattiva.
Da qui una proposta che potrebbe contribuire a fissare un primo principio di parità tra uomo e donna, quando si rendono padre e madre. Quindici sono i test medici obbligatori a cui la gestante deve sottoporsi durante la gravidanza, più un numero imprecisato di altri facoltativi. Tra questi ultimi vi è la villocentesi, che si effettua tra la decima e la tredicesima settimana di gravidanza, prelevando un piccolo campione di placenta per analizzare il DNA fetale. Ebbene, tale esame potrebbe diventare obbligatorio, e nell’analisi del DNA fetale si inserirebbe anche la procedura relativa al riconoscimento della paternità. In questo modo ogni padre, prima che nasca il bambino, sarebbe in grado di avere certezza che quel nascituro a cui è pronto a dedicare una vita di amore e tutte le proprie risorse finanziare e patrimoniali, è davvero il suo. In caso contrario, dovrebbe avere libera scelta se accettare il bambino e accudirlo in ogni caso oppure no. Se decidesse per il no, in quanto vittima di una vera e propria frode ogni suo obbligo nei confronti del bambino stesso e della moglie (che a quel punto probabilmente diventerebbe ex) decadrebbe in automatico, senza che nulla più si abbia a pretendere da lui.
Nel contesto iperfemminista in cui viviamo, una proposta del genere potrebbe apparire come una “rivalsa”, o come una legge “contro le donne”, ma così non è. Essa va considerata sotto l’aspetto meramente del diritto e della parità. Con gli ultimi sviluppi della tecnologia in tema di procreazione, l’asimmetria decennale che penalizza sistematicamente la sfera maschile può essere legittimamente riequilibrata, ammettendo il fatto piuttosto evidente che il predominio della scelta femminile ha finito per soverchiare la libertà di autodeterminazione dell’uomo (e del padre). Nel momento in cui, com’è accaduto, decade il presupposto bio-fisiologico della prevalenza della scelta legata al coinvolgimento del corpo, e ancor più l’impossibilità tecnica di stabilire con chiarezza la paternità di un figlio, tale asimmetria può, anzi deve iniziare a venire riequilibrata sotto molti aspetti. Il primo dei quali deve essere almeno laddove si profili la possibilità di vere e proprie frodi affettive e reali. In questo senso non sarebbe ingiusto prevedere che una siffatta modifica di legge possa avere valore retroattivo.