Oggi e domani vorremmo provare a condividere con i nostri lettori e con l’opinione pubblica due proposte di riforma della disciplina legislativa relativa a separazioni, affido dei figli e mantenimento. Non pretendiamo qui, ovviamente, di delineare una complessiva riforma del Diritto di Famiglia, cosa che richiederebbe un paio di trattati e anni di discussioni. Ci limiteremo quindi a qualche riflessione molto semplice, quasi banale, dalla quale trarre spunto per piccole modifiche che potrebbero migliorare in modo decisivo le dinamiche separative (sottinteso giudiziali) e contemporaneamente allineare il nostro paese alle migliori prassi in materia, correggendo alcune anomalie, in taluni casi anche abbastanza gravi. In questo primo articolo parleremo di un aspetto secondario, ma in ogni caso importante: il mantenimento. Lo definiamo secondario perché è noto che la separazione innesca preoccupazioni soprattutto dal lato affettivo e genitoriale: gli aspetti economici usualmente giungono a corredo di circostanze di sofferenza e conflitto, ed è noto che per prassi finiscono per gravare pesantemente su una soltanto delle due parti, quella maschile e paterna. Lo spunto per ciò che diremo su questo argomento ci viene da un interessantissimo blog aperto di recente da Lorenzo Cornia, commercialista.
Cornia ha pubblicato alcuni articoli illuminanti su questo tema. Il primo riguarda il metodo usualmente utilizzato dai tribunali civili all’ora di stabilire quale sia la ricchezza disponibile della famiglia in via di dissoluzione per poi trarre conclusioni rispetto al noto “assegno di mantenimento”. È noto che la prassi dei tribunali sia quella di chiedere alla parti di depositare la propria dichiarazione dei redditi e, sulla base di essa, stabilire poi «una somma che, in teoria, un coniuge dovrebbe versare all’altro per fare in modo che il tenore di vita dei due nuclei familiari risultanti dalla separazione sia rispettivamente equivalente». Il problema, dice Cornia, è che la dichiarazione dei redditi misura per l’appunto il reddito fiscale e non la disponibilità finanziaria delle persone. Non è differenza da poco: «Il reddito fiscale è un numero astratto, determinato in base alle regole stabilite dal legislatore italiano, su cui lo Stato italiano esige le tasse e poiché l’Italia è uno dei Paesi a maggiore imposizione fiscale al mondo, è risaputo e oggettivamente vero che generalmente il reddito fiscale è un numero molto superiore alla disponibilità finanziaria». Senza contare l’estrema eterogeneità delle diverse categorie di reddito previste dalla legge: dal lavoro dipendente a quello autonomo, passando per le eventuali rendite finanziarie.
Situazioni di grave sperequazione.
Mentre per un lavoratore dipendente il reddito netto corrisponde più o meno alla ricchezza disponibile, questo non si può assolutamente dire per il lavoratore autonomo o l’imprenditore, ad esempio, che destina parte non irrilevante del proprio reddito alla gestione della propria attività/azienda, una destinazione che la dichiarazione dei redditi non registra. «Un professionista che guadagna 100 in un anno», esemplifica Cornia, «e spende 10 di spese di gestione dell’automobile, avrà una ricchezza residua, al netto dei costi di gestione dell’auto di 90, per vivere; ma poiché i costi di gestione dell’auto sono quasi completamente indeducibili, per il Legislatore fiscale è come se non esistessero; il reddito fiscale sarà quindi 98, ma il nostro professionista in effetti avrà in tasca solo 90″. L’ammontare di questi costi indeducibili in Italia è talmente alto da aver indotto la Corte Costituzionale a censurare il legislatore italiano in merito (sentenza 262/2020). Già così, per i profani del fisco, sembrano discorsi astrusi, per questo Cornia fa qualche esempio e nota che, stando così le cose, «un ipotetico professionista che fatturi 100.000 euro all’anno potrebbe trovarsi a dover corrispondere al coniuge una somma che va dai 15.000 ai 30.000 euro all’anno, di cui 7.500 in eccesso. Cifra che sale proporzionalmente al numero di figli. Nel caso fossero tre, ad esempio, la sua liquidità disponibile annua scenderebbe da 45.000 a 15.000 euro. Quello che manca dal computo va sul conto corrente dell’ex moglie. Risulta chiaro, così, il motivo per cui sono così grandi le resistenze a mettere mano a quella parte della prassi applicativa della legge. Già così, di fatto, c’è un esercito di ex mariti si accolla il welfare delle ex mogli, come si dirà più avanti.
Ma è possibile evitare le sperequazioni citate? Certo che sì. Già ora i Tribunali si rivolgono a specialisti di vario genere per materie su cui non hanno competenze specifiche. Siano essi psicologi o psichiatri, medici legali o geometri, grafologi o tecnici informatici, è prassi l’utilizzo di professionisti esterni. Ecco allora che un piccolo comma aggiunto alla Legge 54/2006 potrebbe intervenire ad evitare il radicale impoverimento di uno dei due genitori, usualmente l’ex marito, in una fase di separazione giudiziale. Basterebbe rendere obbligatorio l’intervento di un professionista commercialista scelto dal tribunale nel caso i separandi appartenessero a categorie di lavoratori non omogenee. Nessun problema se sono entrambi dipendenti, ma se uno è un dipendente e l’altro no, dovrebbe essere obbligo di legge l’intervento di un commercialista che, in modo abbastanza rapido e con costi relativamente modesti potrebbe riconciliare il dato fiscale con quello finanziario effettivo, in modo da consegnare ai giudici non l’inutile dato del reddito fiscale, ma quello ben più corretto della disponibilità finanziaria dei due ex coniugi. Certo, si dirà, l’Italia pullula di evasori e lavoratori in nero. D’accordo, ma questa presunzione non può, nei termini di uno Stato di Diritto, guidare la mano di un giudice nello stabilire la ripartizione degli assegni di mantenimento. Se si ritiene che nel caso esaminato sussistano sacche di lavoro nero o evasione, il giudice al massimo può ordinare un accertamento fiscale, non certo emettere un giudizio che riequilibri uno stato di fatto del tutto ipotetico. Dunque una modifica della legge in questo senso, facilissima da attuare, potrebbe andare a correggere numerose situazioni di grave sperequazione capaci, se non controllate, di andare a esacerbare quadri di conflitto e impoverimento già di per sé spesso molto gravi.
Un modello di calcolo dell’assegno di mantenimento.
Gli articoli di Cornia, oltre a ispirare questo tipo di piccola ma importante riforma, richiamano anche alla necessità di un’applicazione corretta della 54/2006, così toccando un punto noto a chi da quindici anni ne denuncia l’inapplicazione. Per “corretta” qui si intende coerente con la ratio della norma, come si può desumere chiaramente dal suo articolo 337 ter del Codice Civile, comma 4, dove si parla della necessità di un assegno proporzionale al reddito «ove necessario» per «provvedere al mantenimento dei figli». È ben noto che la prassi giuridica ha sostanzialmente abolito quel «ove necessario»: un assegno di mantenimento viene quindi sempre stabilito, come di faceva prima della legge del 2006. Non solo: la norma detta che ogni genitore concorre alle spese per i figli proporzionalmente al proprio reddito e anche ai tempi di permanenza. È il cosiddetto “mantenimento diretto”, che però la prassi giuridica ha disatteso trasformando l’assegno di mantenimento così concepito in assegno perequativo. In altre parole esso non rappresenta solo, come dovrebbe essere, la copertura del costo vivo del mantenimento, ma un meccanismo redistributivo della ricchezza. «In questo modo», osserva Cornia, «è evidente che l’importo dell’assegno cresce inevitabilmente, perché non si tratterà più di ripartire tra i coniugi il solo costo vivo, ma sarà necessario attuare un vero e proprio trasferimento di ricchezza dal coniuge più “ricco” a quello più “povero”». Questo è ciò che abbiamo chiamato la “funzione welfare” attribuita agli ex mariti, cioè a soggetti privati, a favore delle ex mogli, quando di norma le iniziative di sostegno al reddito sono funzione collettiva, ovvero dello Stato. Con l’esito di impoverire sistematicamente un intero genere e soprattutto snaturare la corretta applicazione di una norma di legge.
A conclusione del ragionamento, Cornia riflette poi come, nella Babele di situazioni che si verificano di volta in volta nei tribunali, questa misapplicazione della norma crei vere e proprie ingiustizie, a partire proprio dall’interpretazione dell’assegno di mantenimento/di perequazione. Un modo facile per comprendere la stortura è fare un esempio: due genitori con il medesimo reddito, ma tempi di frequentazione diversi, rispettivamente 60% e 40%. In questo caso la partecipazione alle spese è rappresentata rispettivamente dall’area gialla (un genitore) e da quella azzurra l’altro genitore), e il punto di equilibrio è segnato dalla linea rossa.
«In questo caso», osserva Cornia, «l’importo dell’assegno di mantenimento sarà pari alla differenza tra l’area azzurra e la linea rossa, nell’esempio il 7% della spesa complessiva di mantenimento». Il che è vero se non venisse applicata la logica redistributiva applicata dai tribunali che fa salire il contributo a oltre il 35%. È in questa mostruosa forbice che si inseriscono i giochi al massacro dei procedimenti di separazioni, laddove l’ex marito propone (correttamente) un contributo pari al 7% della spesa di mantenimento e l’avvocato di controparte risponde che «la scandalosa cifra di Y euro, che non sarebbe nemmeno sufficiente a nutrire un figlio». Ed è così che «nelle ordinanze che determinano l’importo degli assegni è frequente leggere statuizioni che stabiliscono a titolo di assegno di mantenimento importi di centinaia di euro “per ogni figlio”, con cifre vanno da un minimo di 250 euro fino anche a 800 euro per figlio». Una variabilità che si riscontra da tribunale a tribunale e anche da giudice a giudice, in ogni caso basata su presupposti metodologici errati e un’applicazione snaturata della legge. Accanto dunque alla piccola riforma illustrata poc’anzi potrebbe porsi una direttiva del Ministero della Giustizia indirizzata a tutti i tribunali civili d’Italia che definisca in modo obbligatorio quale sia il criterio corretto per la quantificazione dell’assegno di mantenimento. In attesa di un atteso atto di correzione di questo tipo, il sito di Cornia, che invitiamo tutti a leggere, mette a disposizione un utile modello di calcolo dell’assegno di mantenimento, basato su criteri di correttezza scientifica e legale. Chiunque si appresti ad affrontare una separazione, ne faccia uso, non solo personale, ma anche in tribunale. E, per mera curiosità, chi si è già separato provi a utilizzarlo e ci faccia poi sapere che risultato ottiene, comparandolo a quanto in realtà attualmente sborsa per garantire il privilegio di un welfare privato alla sua ex moglie. Potremmo riscontrare le differenze e farci sopra un ulteriore articolo.