Torniamo ad occuparci di come la triste vicenda di Saman Abbas abbia fatto emergere lo sciacallaggio ideologico che denunciamo da anni. Sciacallaggio occulto e invece, ora si, sotto gli occhi di tutti. La terribile perdita di una giovane e preziosissima vita ha diradato la nebbia: ipocrita strumentalizzazione dei fatti di sangue per scopi diversi da quelli dichiarati a gran voce. Trombe e grancasse in alcuni casi e imbarazzato mutismo in altri, come se alcune vittime fossero meno degne di attenzione di altre. Perché questo doppiopesismo? Un assordante silenzio ha accompagnato dal 29 aprile le indagini sulla scomparsa di Saman, la ricerca dei familiari allontanatisi dall’Italia, l’ipotesi sempre più concreta dell’uccisione concordata tra i familiari, lo strangolamento, la ricerca del corpo, la testimonianza del fratello minore, l’arresto del cugino e l’estradizione dalla Francia. Il femminismo non si è mobilitato sui media, in Parlamento, nelle piazze, NonUnaDiMeno & Co. non hanno aperto le gabbie per i balletti di gruppo al grido di “l’assassino sei tu” o “siamo tutte Saman”.
Non è dato di sapere se il corale silenzio nasca da snobistica indifferenza, cinico menefreghismo, mera distrazione, imbarazzo, calcolo opportunistico, o altro. Resta il fatto che il silenzio è stato notato, eccome. Chi ha fatto autocritica “di categoria” del femminismo nazionale come Ritanna Armeni, chi invece lo ha utilizzato strumentalmente contro avversari politici come Matteo Renzi. La critica al centrosinistra arriva da elette dello stesso PD: la consigliera comunale a Reggio Emilia Marwa Mahmoud condanna il silenzio della politica, in particolare del centrosinistra, sulla vicenda Saman. «Gli amministratori locali hanno subito espresso solidarietà e sono accorsi, ma a livello nazionale nessuno ha parlato. Da una parte c’è il timore di essere tacciati di razzismo nel condannare l’episodio, dall’altro c’è un razzismo latente nel paternalismo con cui si guarda ai migranti e ai loro figli senza trattarli come pari». Solo ora, a oltre un mese ormai dalla sparizione di Saman, e dopo le critiche per l’indifferenza, fa capolino qualche comunicato di Boldrini, Fedeli e Valente, la quale annuncia un’indagine – un’altra, si spera con esiti più concreti delle precedenti – aperta dalla Commissione Femminicidio.
Viene definita vittima di femminicidio.
Però è tardi, ormai le critiche fioccano: Tiziana Dal Pra, dell’associazione Trama di Terre che aiuta ragazze che scelgono di rifiutare un matrimonio imposto, spiega che è riduttivo sostenere che queste giovani si ribellino per «imitare l’Occidente», ma «perché una donna ha diritto di dire no». Sono vittime di violenza di genere e quindi non si può sbrigare tutto alla arretratezza culturale. E proprio per questo la sinistra deve «battere un colpo», perché spesso è paralizzata dalla paura di poter essere additata come razzista. Scrive Erasmo Palazzotto, di Sinistra Italiana: «Saman andava protetta, dai suoi genitori che erano chiaramente un pericolo per la sua incolumità e da una pratica, quella dei matrimoni forzati, che in Italia è un reato punito con la reclusione». Antonella Veltri, presidente di D.I.Re. (Donne in rete contro la violenza), sottolinea: «I matrimoni forzati sono una delle forme della violenza contro le donne riconosciute dalle Nazioni Unite, oggetto di campagne di prevenzione da decenni, che conferma ancora una volta quanto la violenza di genere sia un fenomeno strutturale nelle società modellate dalla cultura patriarcale».
Ecco, D.I.Re. chiama in causa le società “modellate dalla cultura patriarcale”. È questo il macroscopico equivoco costruito a tavolino da anni: per sostenere che l’Italia sia un paese cronicamente inquinato dall’oppressione patriarcale si utilizzano migliaia di episodi – non solo omicidi, ma anche stupri, sfregi, percosse, lesioni, maltrattamenti, atti persecutori e altri reati con vittime femminili – maturati in famiglie nigeriane, cingalesi, pakistane, indiane, bengalesi, tunisine, algerine, albanesi, senegalesi, magrebine, somale, ghanesi, etc. Famiglie più o meno regolari residenti in Italia, ma portatrici di humus socioculturali lontani anni-luce dal nostro. In Italia mai una ragazza è stata condannata a morte dalla propria famiglia per voler essere troppo occidentale, per non seguire i dettami religiosi, per opporsi alle mutilazioni genitali, per rifiutare un matrimonio combinato. Quando accade si tratta sempre – non spesso, sempre – di famiglie di origine straniera. Sono fatti, non opinioni. La povera Saman purtroppo non c’è più, si cerca la salma e ormai la morte sembra certa. Viene definita vittima di femminicidio da Emma Bonino, Valeria Fedeli e tante altre.
La colpa è del patriarcato e maschilismo italiano.
La propaganda del Vittimificio S.r.l. si nutre degli slogan «donna uccisa inquantodonna», quindi lo sterminio di persone per il solo fatto che siano donne, e «un femminicidio ogni due giorni», il che vorrebbe dire oltre 180 vittime ogni anno. Numeri inesistenti nella realtà, come dimostriamoda tempo con analisi approfondite, ma i numeri dei femminicidi continuano a essere gonfiati artificialmente e per farlo il Vittimificio ha bisogno di infilare qualsiasi episodio dentro ad un calderone che ormai contiene di tutto. Un filone importante è l’uccisione di donne ad opera di stranieri, lo sottolineiamo ogni volta pur senza stornare tali episodi dal computo totale. Scrivevamo nell’analisi dei femminicidi 2019: «(…) un capitolo a parte per le donne uccise da cittadini stranieri. il distinguo non riguarda l’aberrazione secondo cui la vita di una donna straniera sarebbe meno preziosa di quella di una donna italiana, o un assassino straniero sia più criminale di un assassino italiano. (…) Non è una diminutio della gravità del gesto, ciò che va rilevato è che i delitti maturati in contesti sociali, culturali e religiosi estremamente diversi da quello italiano vengono utilizzati per sostenere che il “femminicidio” è un problema sociale cronicizzato in quanto l’Italia è un paese patriarcale, intriso di sovrastrutture culturali sessiste in cui la violenza sulle donne diviene un reato “di sistema”. Ogni donna in Italia sarebbe a rischio di essere uccisa e gli uomini italiani andrebbero “rieducati”, testuale. Quindi, visto che il cittadino nigeriano ammazza la moglie, andrebbero rieducati i carabinieri che lo arrestano e il giudice che lo condanna. Una forzatura, per non dire altro (…)».
Concetti ribaditi nell’analisi dei femminicidi 2020: «La strumentalizzazione dei delitti compiuti da cittadini stranieri emerge anche dall’ultimo triste episodio del 2020, la morte di Agitu Ideo Gudeta, esule etiope divenuta piccola imprenditrice di successo in Italia. I social si riempiono di condanne per la società italiana, i media si accaniscono nel citare una denuncia del 2018 sporta dalla donna contro un 50enne italiano per stalking, lesioni e minacce a sfondo razzista (…) salvo poi dover riconoscere che si trattava di una lite come tante tra vicini, l’uomo era stato condannato per essere venuto alle mani con un dipendente di Agita originario del Mali, non con Agita stessa, e assolto sia dal reato di stalking che dall’aggravante razzista. (…) la persona condannata nel 2018 per una lite col dipendente diventa il principale indiziato per l’omicidio – due anni dopo – della datrice di lavoro. Indiziato per gli inquirenti ma soprattutto per i media e i social, che hanno già trovato il colpevole. Femminicidio, bisogna rieducare gli uomini italiani. Poi confessa l’assassino ma non è il 50enne di cui sopra e non è nemmeno italiano ma un dipendente ghanese della vittima, inoltre il movente è economico: l’aggressione nasce per rivendicare uno stipendio non pagato. Ma non cambia nulla, i pregiudizi ideologici sono profondamente radicati, lo stigma sul carattere ossessivamente nazionale dell’oppressione di genere è inamovibile. Gli italiani devono essere rieducati perché il nostro è proprio un Paese che odia le donne». Strumentalizzazione ideologica. È come se io andassi ad Atene a imbrattare il Partenone con la vernice spray e l’episodio venisse strumentalizzato per sostenere che la Grecia è un Paese barbaro che odia l’arte, quindi i cittadini greci andrebbero rieducati. Saman comunque non si trova. Continuiamo a sperare che possa essersi messa in salvo, magari fuggita chissà dove. Se tuttavia si rivelasse fondata la pista dell’omicidio, avremmo una condanna a morte decisa all’interno di una famiglia ancorata a usanze illegali in Italia, col ruolo prevalente della madre, il ruolo attivo dello zio che avrebbe materialmente strangolato Saman e l’appoggio dei cugini che dovrebbero aver aiutato l’assassino a nascondere il corpo, ma questo le indagini ancora devono chiarirlo. Assassino, complici e mandanti tutti pakistani, però la colpa di quanto accaduto è del patriarcato, della misoginia e delle sovrastrutture culturali maschiliste che avvelenano l’Italia.