2018 – Salvatrice Spataro uccide il marito Pietro Ferrera a coltellate, con la complicità dei figli Mario e Vittorio. Alla fine dell’aggressione sul cadavere si contano 57 colpi. 2020 – condanna in primo grado: 14 anni di reclusione per tutti i soggetti coinvolti nell’assassinio. 2021 – il 17 giugno la pena viene ridotta in Corte d’Appello da 14 a 9 anni, inizialmente trapela la motivazione dello sconticino: non c’è l’aggravante della crudeltà. Qualcuno, commentando che forse “solo” 57 coltellate non sono indice di crudeltà, si domandava se il limite per configurarla sia 60, 80 o altro. Per capire meglio bisognava attendere le motivazioni, uscite qualche giorno fa. La seconda sezione della Corte d’Assise d’Appello, presieduta da Angelo Pellino, deposita 91 pagine di motivazioni dalle quali emerge un concentrato di violenza, premeditazione e accanita volontà omicida, ma senza crudeltà; le attenuanti sono state ritenute prevalenti rispetto alle aggravanti, per cui 5 anni di pena vanno tolti. Nelle motivazioni si legge che «la rabbia non ha spinto “solo” l’imputata a colpirlo per fargli del male senza l’intenzione di uccidere, ma con la ferma intenzione di portare l’aggressione fino alle estreme conseguenze». Quindi non un raptus, ma un omicidio premeditato. Ancora: «la donna ha scelto con cura il coltello che si è rivelato essere un’arma letale e che poteva garantire per le dimensioni della lama il massimo dell’offensività (…) non ha colpito alla cieca, ma dritto al collo, alla gola, e non una ma più volte e lo ha fatto, tra l’altro, cogliendo di sorpresa il marito, approfittando del fatto che fosse disteso sul letto, dandole le spalle». Quindi non ha reagito ad un’aggressione, l’azione violenta l’ha scientemente messa in atto lei
Ancora: «non si è limitata ad infliggere quelle prime coltellate con efficacia già letale, ma ha proseguito anche dopo che i figli avevano fatto irruzione nella stanza, continuando o riprendendo a colpire Ferrera insieme a loro fino a raggiungere la certezza che fosse morto». L’autopsia ha accertato che già le prime 4 coltellate alla gola fossero mortali, la vittima era ormai agonizzante quando ha provato a proteggersi dalle altre e poi a fuggire in corridoio, dove è crollato senza vita. Le ulteriori 53 coltellate sono state vibrate accanendosi su un corpo ormai immobile. Ma non c’è l’aggravante della crudeltà. Ancora: «Nessuna provocazione, é impensabile la legittima difesa (…) non si può neppure lontanamente ammettere la legittima difesa nel caso dei figli, visto che ad un uomo disarmato e già in partenza indebolito da gravi ferite già mortali sono state inferte oltre cinquanta coltellate, in una sequenza rapsodica che non s’è fermata neppure quando la vittima ha tentato di sottrarsi alla furia della mortale aggressione col tentativo di fuga (…) se una colluttazione vi fu tra Ferrera e i figli Mario e Vittorio scaturì solo dal disperato tentativo della vittima di parare i colpi e di sottrarsi all’aggressione con la fuga verso il corridoio, fuori da quella stanza trasformatasi in camera della morte». Quindi è impossibile considerare l’attenuante della legittima difesa, né per la Spataro né per i figli.
Gli inquirenti hanno fatto il loro mestiere.
Infine la parte che più ci interessa ai fini del bilanciamento tra aggravanti e attenuanti, e delle conclusioni che ne possiamo trarre: il contesto in cui è maturato il delitto Pietro Ferrera avrebbe sottoposto la sua famiglia ad ogni sorta di violenza per anni: «La donna il giorno dell’omicidio si era finalmente convinta a presentare una denuncia contro il marito, anche se non sarebbe stata affatto convinta che questa avrebbe potuto essere la reale soluzione al suo calvario (…) La sera dell’omicidio l’ultimo sopruso di Ferrera: “Vieni a letto, sei una latrina” avrebbe detto infatti a Salvatrice Spataro, esigendo un rapporto sessuale. Un ordine al quale la donna avrebbe deciso di non soggiacere». Per la Corte la motivazione – e la genesi – del gesto omicida non sarebbe stato quest’ultimo scontro tra i due, ma «ha agito da grilletto proprio quella ragione addotta dalla stessa imputata: l’inutilità di una denuncia, che non sarebbe servita a preservarla da soprusi, violenze e vessazioni, ma anzi avrebbe peggiorato la situazione (…) Più che la rabbia poté il rifiuto di soggiacere alle voglie del marito-orco, unito al senso di impotenza e frustrazione, dalla paura della violenta ritorsione che il suo rifiuto avrebbe provocato nel marito e soprattutto la determinazione a farla finita una volta per tutte», dicono i giudici. Il gesto omicida «non fu frutto dell’ennesima lite che pure aveva avuto con il marito prima che questi andasse a coricarsi», ma «il torto consisterebbe piuttosto nella reazione violenta che Ferrera avrebbe opposto ad un fermo rifiuto di sua moglie di soggiacere alle sue voglie. Un torto solo paventato – o addirittura erroneamente supposto – e non un torto effettivamente commesso dalla vittima ai danni dell’imputata». Per questo non può essere concessa l’attenuante della provocazione. Sì alle attenuanti per il passato doloroso degli imputati. Tuttavia, i giudici hanno stabilito che per la donna, a differenza di quanto sancito dal giudice di primo grado, «le circostanze attenuanti vanno applicate col criterio della prevalenza e nella loro massima estensione, dovendosi ridurre di un terzo la pena base già inflitta» per il passato doloroso e il contesto in cui è avvenuto l’omicidio. Ecco quindi da cosa nasce la riduzione di pena da 14 a 9 anni: il contesto familiare ed il passato doloroso.
Non c’è la provocazione, non c’è un raptus improvviso, non c’è la legittima difesa, non c’è la crudeltà (?!?!), però ci sono la premeditazione e la convinzione che non servano a nulla separazione, denunce, allontanamento e misure cautelari, non vale la pena nemmeno avviare un percorso secondo gli strumenti previsti dalla legge; l’unica strada veloce, concreta e risolutiva è uccidere Pietro. Sorvoliamo sulla ricostruzione unilaterale che la vittima non può certo contestare dall’interno di una bara, ammettiamo che realmente Pietro Ferrera fosse un mostro e «Vieni a letto, sei una latrina» sia la frase con la quale ha firmato la propria condanna a morte in quanto elemento scatenante della vendetta omicida (il grilletto, scrivono i giudici). Gli inquirenti tuttavia hanno fatto il mestiere per il quale sono pagati, raccogliendo informazioni e ascoltando testi, per acquisire elementi utili a definire il contesto all’interno del quale l’omicidio è maturato. Tale lavoro ha affievolito la pena per gli assassini, pur senza annullarla.
In ottemperanza al femministicamente corretto.
Salvatrice aveva un passato familiare doloroso, quindi nell’economia generale del processo hanno pesato i comportamenti della vittima anche in periodi precedenti di anni rispetto all’evento omicidiario. Salvatrice si sentiva chiusa in una morsa dalla quale credeva di non potersi liberare, si sentiva sotto pressione, intrappolata, soggiogata, angosciata, impotente, frustrata. In sostanza: era esasperata. Dove ci porta tutto questo? Al linciaggio mediatico e non solo mediatico subito da Barbara Palombelli, rea di aver sollevato un dubbio: «A volte è lecito domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, completamente obnubilati oppure c’è stato un comportamento esasperante e aggressivo anche dall’altra parte?». Si, è lecito domandarselo. La prova è nelle motivazioni che abbiamo appena esaminato della Corte d’Appello di Palermo: deve essere valutato il contesto familiare all’interno del quale l’omicidio matura, quindi i comportamenti dell’assassina ma anche della vittima. Anzi, più che lecito è doveroso: è esattamente questo che dovrebbero fare gli inquirenti in ogni caso di morte violenta, a prescindere dal genere di autori e vittime.
Invece non sempre accade, conta parecchio a chi appartiene la mano assassina. Di solito quando il genere di chi uccide è femminile si scava nel passato della vittima per capire se in fondo “se la sia andata a cercare”; il caso Spataro non è certo l’unico, ci sono anche il caso Sciacquatori e tanti altri. Se la vittima è un uomo si può fare, si deve fare. Quando invece la vittima é una donna non si deve approfondire troppo, non ci si deve chiedere cosa accadesse in quella casa prima che esplodesse la violenza, non si deve verificare se per caso l’assassino avesse passato un calvario emotivo simile a quello riconosciuto a Salvatrice Spataro. Soprattutto non si deve neanche ipotizzare che la vittima possa avere avuto un comportamento esasperante, come ha fatto l’incauta Palombelli. Altrimenti parte la gogna ideologica, si assiste alla calata delle scimmie urlatrici a strepitare di vittimizzazione istituzionale, ri-vittimizzazione, vittimizzazione secondaria. In fedele ottemperanza al trend femministicamente corretto.