Uno dei tanti temi attualmente in discussione, nella politica e nell’opinione pubblica, è l’annunciata riforma della giustizia, oggi denominata “Riforma Cartabia”, dopo che il Governo, pochi giorni fa, ha apportato i suoi emendamenti al relativo disegno di legge. Il testo di partenza ha origine nell’elaborazione fortemente “manettara” del Governo Conte, prodotta sotto la gestione dell’ex ministro Bonafede e dietro la dettatura di tutti i tanti giustizialisti del M5S e del Fatto Quotidiano. È soprattutto da lì che scaturiscono le maggiori discussioni odierne, tutte imperniate sostanzialmente sulla disciplina della prescrizione. Chi, come i grillini, vorrebbe bloccarla per evitare che qualcuno scampi a una sentenza, si schianta contro la necessità di velocizzare al massimo possibile i procedimenti. Una necessità che ora è diventato obbligo. Non per garantire ai cittadini una giustizia più giusta e rapida, figuriamoci, bensì perché la riduzione del 25% dei tempi di definizione dei procedimenti è una delle condizioni per accedere ai benefici debitori del Recovery Fund. Il Ministro Cartabia, integrando i lavori di una Commissione di Studio creata ad hoc, ha così proposto numerosi emendamenti proprio per conformare il sistema ai desiderata europei, suscitando le furie dei molti che in Italia godono a sapere che le manette tintinnano per qualcuno.
Si tratta in generale di una querelle fuori dall’interesse di queste pagine, tuttavia una riforma così ampia della giustizia non poteva non contenere misure che in qualche modo intercettano alcune parti delle nostre riflessioni, soprattutto per quanto concerne il tema delle false denunce e la tendenza alla persecuzione unilaterale delle cosiddette “violenze di genere”, interpretate solo come maschili contro le donne. Ci siamo dotati dunque del testo della proposta di legge come emendata dal Governo e ne abbiamo studiato i contenuti, trovando in esso alcune parti di non poco interesse. Il primo elemento di grande importanza, per lo meno sulla carta, è il radicale cambio di criterio che dovrebbe guidare i giudici nella scelta se procedere a giudizio contro un accusato o se optare per l’archiviazione da parte del Pubblico Ministero (PM) o il non luogo a procedere da parte del Giudice per l’Udienza Preliminare (GUP). Ad oggi il sistema prevede che si prenda quel tipo di scelte, che interrompono ogni ipotesi di procedimento verso l’accusato, quando «gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio». Cioè la domanda che il magistrato si fa, oggi, è: ci sono abbastanza elementi (prove, testimonianze, perizie, eccetera) per istruire un processo che stia in piedi? Se no, si archivia o si decreta il non luogo a procedere. Passasse la riforma Cartabia, il criterio cambierebbe in: «quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna», il che è tutto un altro paio di maniche.
L’assurdo rafforzamento del “Codice Rosso”.
La domanda che la pubblica accusa sarebbe tenuta a farsi a quel punto è infatti: ho abbastanza elementi per avere buone possibilità di far condannare l’accusato? In termini giuridici e pratici è una vera rivoluzione copernicana: oggi l’obiettivo della valutazione è vedere se un processo può essere istruito, magari tirando per i capelli prove fragilissime o strizzando come un limone circostanze palesemente contraddittorie (come accade nelle false accuse), con il risultato che viene fatta partire una pletora di procedimenti che ingolfa il sistema. Dietro a questo tipo di scelte c’è anche il timore della pubblica accusa di farsi “scappare” qualche criminale, con il connesso rischio che questo commetta altri reati e la conseguente gogna mediatica (e danno alla carriera) per il giudice che non l’ha perseguito. Dunque il trend è di istruire procedimenti anche quando gli elementi a supporto sono fragilissimi: alla pubblica accusa non costa niente farlo, anzi ci guadagna perché passa la patata bollente della decisione al collega giudicante. A farne le spese, come detto, l’intero sistema, congestionato parossisticamente di quisquilie (e false accuse). Con la riforma Cartabia cambierebbe totalmente l’ottica: l’obiettivo sarebbe non istruire un processo purchessia, ma farlo solo se la pubblica accusa ha buone possibilità di accertare la colpevolezza dell’imputato. In questi termini le denunce o querele fondate su quisquilie, palesemente costruite in modo strumentale o chiaramente false, avrebbero probabilmente vita breve. Non sarebbe più importante far marciare la macchina della giustizia, ora ingolfatissima, ma procedere solo laddove le evidenze contro l’accusato tendono a essere schiaccianti. Sulla carta questo garantirebbe di non vedere più padri alla sbarra per stalking perché insistevano a voler sentire i figli al telefono o uomini a giudizio per maltrattamenti per aver mandato a quel paese la moglie. Che possa andare così lo conferma il fatto che la legge di riforma, all’art.15 bis, attribuisca una grande importanza alle statistiche giudiziarie. Proprio quelle a cui facciamo sempre riferimento noi per sottolineare il fenomeno delle false accuse: negli ultimi dieci anni si ha una media di 50 mila denunce all’anno da parte di donne contro uomini per reati legati alla “violenza di genere” e nello stesso arco di tempo le condanne di uomini per quegli stessi reati si aggirano su una media di 5.000 all’anno. Delle 45 mila che restano, metà vengono subito archiviate o finiscono in non luogo a procedere. Ne restano circa 23 mila che vanno in procedimento ma finiscono in assoluzione. Chiaro che un PM o un GUP che sappiano leggere i numeri e abbiano ben presente questi trend, per essere conformi al dettato della riforma oggi in discussione dovranno operare finalmente perché anche quest’ultime vengano bloccate sul nascere, dando sollievo al sistema, evitando calvari inutili a uomini innocenti e disincentivando una pratica infame come quella delle false denunce, oggi di fatto dilagante.
Significativo anche, nella nostra ottica, quanto proposto dall’art.9 bis della riforma, riguardante le casistiche di “non punibilità” per tenuità del fatto. Con la riforma sarebbero pochi i casi e molti di più i tipi di reato in cui non si applicherebbe la disciplina della “non punibilità”, ed è pressoché certo che le pressioni del femminismo politico faranno includere nel novero dei tipi di reato quelli considerati tipicamente maschili contro le donne. C’è però nella proposta una compensazione molto interessante, sempre nell’ottica delle accuse false o strumentali. Al comma c) dello stesso articolo si dice che la nuova normativa dovrà «dare rilievo alla condotta susseguente al reato ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell’offesa». Cioè assumerà importanza, per la valutazione di non punibilità, anche quello che l’accusato ha fatto dopo aver commesso gli atti per cui è stato portato in giudizio. Questa potrebbe essere una scialuppa di salvataggio per i tanti uomini che vengono trascinati alla sbarra con false accuse o per singoli fatti bagatellari e circoscritti, però ingigantiti dalla falsa accusatrice di turno a suon di “sentori”, “danni emozionali” e cose del genere. Per dirne una: a queste condizioni il “catcalling” non innescherebbe più procedimenti (vivaddio) e i processi per stupro dove la presunta vittima scambia messaggini sbaciucchiosi con il suo presunto carnefice dopo l’ipotetica commissione del crimine, finirebbero tutti immediatamente in archiviazione. Straordinariamente disorientante è invece la previsione degli articoli 9 e 14 bis, che in sostanza ridefiniscono la “vittima di reato” inserendo l’ipotesi di “danno emotivo” (e sa solo il cielo come si potrà valutarne la sussistenza…). Ma soprattutto, in piena contraddizione con l’esigenza di partenza di snellire i procedimenti, ampliano l’applicabilità del orrido “Codice Rosso”, ovvero una delle maggiori cause della saturazione e rallentamento di procure e tribunali, con risultati concreti, a più di un anno dall’approvazione, praticamente nulli. A meno che non si conti come risultato positivo il gran numero di uomini messi in qualche forma di custodia preventiva o allontanati a seguito di una denuncia in Codice Rosso, e poi rilasciati con tante scuse poco dopo perché i riscontri alle accuse erano pari a zero.
Per avere giustizia si confiderà sempre più nella sorte.
Rilevante è infine quanto previsto al punto h) dell’articolo 3, che solo apparentemente non ha un collegamento con le questioni di nostro interesse. La proposta è che «gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati con legge del Parlamento, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, […] al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre». Vuol dire che il Parlamento definirà (ogni anno?) un elenco di reati che dovranno essere perseguiti in via prioritaria dalla magistratura. All’interno di quell’elenco i PM avranno discrezionalità nella gestione delle pratiche che gli arrivano sul tavolo. Supponiamo, semplificando al massimo, che pervengano tre casi: una diffamazione aggravata, una violenza privata e un furto. Supponiamo che soltanto il furto e la violenza privata siano nell’elenco dei “reati prioritari” stabilito dal Parlamento. Il PM potrà decidere se trattare prima la violenza privata o il furto e archivierà o metterà su uno scaffale a prendere polvere (che poi è lo stesso) la diffamazione aggravata. Uno scenario del genere è bene o è male (in generale e per le tematiche di nostro interesse)? In generale è male, anzi malissimo. Con la definizione politica dei reati prioritari e la discrezionalità del PM si aprono grosse brecce in due capisaldi del diritto europeo e romano: la netta separazione dei poteri fra organi giudiziari e organi politici da un lato, e l’obbligatorietà dell’azione penale dall’altro. Entrambi sono principi costituzionali e l’ultima in particolare è ciò che più di ogni altra cosa, oltre a segnare la civiltà del nostro sistema giuridico-giudiziario, sollecita il fenomeno delle false accuse. Il cittadino oggi sa che qualunque denuncia presenti, verrà sempre presa in carico dal sistema, perché è un obbligo di legge farlo. Ogni denuncia deve passare sotto gli occhi di un giudice e, se è scritta abbastanza bene da gabbare gli oberati e spesso distratti PM, ci sono buone possibilità che si aprano delle indagini e vada in procedimento. Ecco (anche) perché dilagano le false denunce ed è da anni, fin dai tempi di “Stalker sarai tu“, che prevediamo il conseguente graduale smantellamento dell’obbligo dell’azione penale.
Si dirà: be’, c’è da gioire se viene tolta una delle cause del dilagare delle false accuse, no? No. L’arma giusta sarebbe pensare a netti disincentivi e sanzioni per chi presenta denunce palesemente false, ad esempio trasformando in reato penale la “lite temeraria”, oggi prevista solo dal Codice Civile (comma 1 dell’art. 96 C.P.C.), da perseguirsi automaticamente in caso di piena assoluzione dell’accusato e limitatamente a quei reati le cui denunce-querele non esitano in condanna per almeno il 50% ogni anno. Andando invece a intaccare l’obbligo dell’azione penale, si va a disarmare uno degli strumenti generali di garanzia di giustizia più importanti del sistema. L’avevamo previsto e sta succedendo: l’Italia fa così un primo passo verso un sistema “all’americana”, dove la pubblica accusa ha discrezionalità su cosa perseguire e cosa no, con decisioni in buona parte guidate da inclinazioni politiche proprie o indicazioni dettate dall’esterno o ispirate dal bisogno di compiacere la propria corrente ideologica, magari per fare carriera (citofonare Luca Palamara). Ma soprattutto con questa nuova disciplina e in presenza di una dilagante cultura di criminalizzazione dell’uomo e vittimizzazione della donna, con dati e statistiche falsate prodotte da soggetti improponibili e in conflitto d’interesse, quali reati mai verranno inseriti nell’elenco dei prioritari dalla politica? Domanda retorica. Il rischio, stanti così le cose, è di avere un sistema affetto da disturbo dissociativo dell’identità, con da un lato tutti gli strumenti per decongestionare la giustizia, con ciò anche fermando la persecuzione giudiziaria tramite false denunce di uomini (e non solo) innocenti, e dall’altro una poderosa spinta politica a rendere il nostro Paese un clone della Spagna, con la sostanziale sospensione dei diritti per le persone di sesso maschile. Vero è che i parlamenti e le maggioranze cambiano, e con loro cambierebbe anche l’elenco dei “reati prioritari”, ma è altrettanto vero che il femminismo suprematista e vittimista alligna trasversalmente da destra a sinistra, dunque non se ne uscirebbe. Alla fine, il superamento dello stato schizofrenico sarebbe riposto interamente nella buona o cattiva sorte, ovvero nel finire o meno sotto le mani di un giudice oggettivo o non indottrinato, o di uno che con il vittimismo femminista intende farci carriera. Ed è forse anche per questo, per garantirsi un futuro sistema giudiziario a norma di oppressione rosa, che il femminismo bussa sempre più insistentemente alla porta dei giudici. Non resta che sperare che nessuno gli apra mai e che si apportino a questa riforma i correttivi necessari a sbarrargli l’accesso per sempre. Perché la Spagna e il suo regime sessista antimaschile sono a un passo, e non solo dal punto di vista geografico.