Ci contatta un docente universitario siciliano (non diremo di più per tutelarne l’identità). Lo fa sulla scorta della vicenda del Prof. Mitola di Bari, essenzialmente per segnalarci l’iniziativa pubblicizzata sui social da parte del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania. Nel suo ambito, un’organizzazione dal nome “Nike” organizza un webinar su Facebook sul tema, così dice l’annuncio, “disforia di genere, transessualismo e femminismo intersezionale”. La solita roba molto di moda, insomma, di cui si parla perché esistono finanziamenti per farlo o perché più semplicemente “fa curriculum” in ambito accademico. Dove però i temi dovrebbero avere una trattazione neutra: le università sono (dovrebbero essere) centri di studio e ricerca, non dépendance di centri sociali o collettivi d’autocoscienza queer o femministi.
Eppure il manifesto ha una conclusione che più chiara non si può (corsivi nostri): “Una pillola di cultura su tematiche non abbastanza conosciute per provare ad abbattere il patriarcato e l’eteronormatività“. Dunque non è istruzione né formazione, ma indottrinamento orientato alla mobilitazione contro uno status quo che si presume come esistente. Il tutto con l’apparente benedizione di un Dipartimento universitario di Scienze Umanistiche. “Trovo l’ultima espressione agghiacciante”, ci dice al telefono il professore. “Io non ho mai, dico mai giudicato nessuno per orientamenti sessuali, per razza o credo religioso… Io credo nella sacralità dell’individuo e nel rispetto reciproco delle idee e degli orientamenti di tutti… Ma questi signori hanno ormai superato ogni limite. Pensano di vivere in un mondo controllato dagli uomini, fatto per soli uomini bianchi ed eterosessuali che devono essere annientati”.
In gran parte dei contesti è ormai vietato di fatto.
Non si può rendere per iscritto, e non siamo stati autorizzati a pubblicare l’audio della telefonata, ma vi assicuriamo che la voce del professore tremava. Di indignazione, anzitutto, ma non solo. La ragione di quei tremori si spiega quando gli chiediamo se ha fatto presente la sua contrarietà in Facoltà o al Dipartimento. “Io ormai ho paura di espormi…”, ci risponde. “Sono un docente universitario affermato e stimato, ma se mi esponessi in prima persona sarei di certo subissato di critiche e accuse di omofobia. Essere oggigiorno eterosessuali e bianchi è diventato un marchio di infamia…”. Ci chiede più volte di non dare alcun tipo di indicazione che possa renderlo individuabile. È letteralmente terrorizzato.
La conclusione della sua telefonata è quasi una supplica: “Ribadisco: io non ho nulla contro niente e nessuno… Trovo oscena la discriminazione verso qualsivoglia orientamento sessuale, ma pretendo rispetto per chi crede in una società fondata sulla famiglia”. Abbiamo parlato con un educatore, un docente, una persona di scienza. Ci si attenderebbe solidità da una persona così, invece abbiamo ascoltato la voce di un individuo devastato dallo sdegno e dal terrore. È l’unico in queste condizioni? Siamo certi di no. Buona parte del corpo docente, specie universitario, tace, s’adegua e asseconda le tendenze dominanti. Molti altri soffrono, vorrebbero un confronto dialettico, rispettoso e costruttivo, ma sanno che non è possibile. In gran parte dei contesti è ormai vietato di fatto, e chi viola il divieto rischia reputazione e posto di lavoro. È anche in questo terrore dei nostri docenti che si annida un regime non apertamente dichiarato, ma più che mai attivo e oppressivo. E domattina racconteremo una storia cruciale, in questo senso.