Settimana scorsa, Pasquale Tridico, Presidente dell’INPS, ha presentato il XIX Rapporto Annuale dell’Istituto, affrontando diversi temi: la Cassa Integrazione in tempo di pandemia, il reddito di cittadinanza, “quota 100″ e pensioni”, più un capitolo specifico (e immancabile) sulle donne. Su quest’ultimo aspetto ha sottolineato come le lavoratrici che durante il loro percorso professionale hanno scelto di diventare madri, dopo 15 anni dal parto guadagnino circa 5.700 euro lordi in meno delle donne che non hanno avuto figli. Si tratta di una media del 6% di reddito lordo in meno tra le due categorie di donne, un gap che non si manifesta in modo transitorio subito dopo la nascita del figlio, ma tende a permanere nel tempo. Gran parte delle madri lavoratrici, infatti, opta per il part-time nella fase iniziale, per poi permanere anche ampiamente oltre le età in cui il figlio non necessita di un accudimento costante e quotidiano. Questa scelta impatta in modo decisivo sullo sviluppo dei redditi di queste donne, in buona parte danneggiate anche dal “Jobs Act” del 2015, che ha abolito l’obbligo di reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa, ora sostituito da un indennizzo.
Nell’ansia di vittimizzarsi ancora un po’, l’industria e la propaganda che ruotano attorno al femminismo nazionale si sono gettate a pesce su queste indicazioni di Tridico, cercando di farle rientrare a forza nello schema che negli ultimi tempi va per la maggiore: alta disoccupazione femminile, il covid ha danneggiato soprattutto le donne, in Italia dilaga il divario salariale di genere, ergo metà del “Recovery Fund” va dirottato verso politiche favorevoli alle sole donne sotto ogni profilo, compreso quello lavorativo e occupazionale. Nella stessa direzione vanno diverse iniziative come la vergognosa proposta del ministro Catalfo di incentivare le assunzioni di donne attraverso una decontribuzione totale per tre anni, o pratiche già in atto di selezione di personale attuata in base al genere. La “Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati” di Trieste, ad esempio, ha pubblicato qualche giorno fa una manifestazione d’interesse per una posizione lavorativa presso il suo Dipartimento di Fisica espressamente riservata a sole outstanding female candidates (candidate straordinarie). La grancassa femminista ha dunque accolto le parole di Tridico come un’ennesima benedizione per un trend esclusivo e privilegiato atto a tagliar fuori da occasioni lavorative metà della popolazione nazionale.
L’innominabile è sempre lui: l’uomo, il marito, il compagno.
Il battage però è durato poco. Le centrali della mistificazione femminista devono essersi rese conto che è sufficiente una lettura appena un po’ attenta del report illustrato da Tridico per rendersi conto della sua dirompenza. Esso dimostra infatti che, se non esiste il divario salariale di genere tra uomini e donne, come ampiamente dimostrato, ne esiste uno bello grosso tra lavoratrici madri e lavoratrici non-madri. Un bel maternal wage gap ampio quanto una voragine del 6%. E non, si badi, determinato da leggi inique o da un sistema strutturalmente sessista, bensì da libere scelte operate dalle lavoratrici stesse. Tra queste, la scelta di un percorso di carriera modesto, l’opzione per il part-time, ma soprattutto, scelta ben più significativa delle altre, quella di diventare madre. La vera e propria dannazione delle femministe, che hanno in odio l’istinto procreativo umano in generale e femminile in particolare. Anche per questo si schierano compatte e orgogliose a favore dell’aborto, dileggiano e sminuiscono le donne che scelgono la “carriera domestica e materna”, e trasformano la donna sola, in carriera, con gatti e relazioni temporanee e promiscue in una specie di modello di vita assoluto.
La verità sul divario salariale di genere sta proprio nei dati portati da Tridico e nella stridente contraddizione interna al dettato femminista: a contendersi ricchezza e reddito, prima di essere uomini e donne, sono donne che il femminismo considera di serie A (le non-madri) e donne che il femminismo considera di serie B (le madri). Una visione per cui è meglio essere schiave di un datore di lavoro che collaboratrici di un uomo in un contesto cooperativo come può essere una famiglia. Una posizione, questa, troppo innaturale per avere mordente. Uno dei maggiori punti deboli del femminismo, che per questo non attecchisce al di fuori di una minoranza rumorosissima e di un diffuso ma blando e conformista fiancheggiamento generale. Che rischierebbe di tramontare se l’incoerenza delle posizioni venisse messa chiaramente in luce. Ecco perché la standing ovation in rosa per le parole di Tridico è durata poco. Anche perché, a leggerla bene e fino in fondo, la relazione del Presidente INPS evoca un convitato di pietra, tenuto debitamente fuori da un discorso che deve (feministe oblige) parlare solo di donne. L’innominabile è sempre lui: l’uomo, il marito, il compagno. E, per estensione, l’altra bestia nera: la famiglia.
Il convitato di pietra attende da tanto tempo di essere chiamato in gioco.
Seguiamo, banalizzandolo volutamente, il filo logico: ci sono donne che guadagnano meno di altre donne solo perché nel loro percorso hanno deciso di diventare madri. La maternità è quindi un problema per la ricchezza individuale e lo sviluppo professionale. A meno che, però, le donne che optano per la maternità non siano tutte delle Vergini Maria redivive, quella maternità andrebbe chiamata in realtà genitorialità. Cioè dall’altro versante della questione c’è un uomo, sia esso marito, fidanzato o compagno, che ha contribuito a creare quell’ostacolo alla carriera della donna. Come tale, per logica, dovrebbe essere messo in condizione di alleviare il danno conseguente, di assumersi la responsabilità di quella paternità che sta paritariamente viso a viso con la maternità. Condividendo gli sforzi per gestire l’ostacolo, probabilmente l’ostacolo stesso non risulterebbe più tanto insormontabile o penalizzante. Sicuramente non lo sarebbe soltanto da una parte. Il problema è che la legge non lo consente, né promuove questa logica, e basta paragonare il periodo disponibile di congedo post neonatale tra lavoratori e lavoratrici per rendersene conto. In altre parole, se c’è del sessismo nel sistema, se le leggi favoriscono il gender gap, lo fanno a danno dell’uomo, impedendogli di svolgere il proprio ruolo paterno, disincentivando l’assunzione di responsabilità genitoriale e inchiodandolo all’antico ruolo di sgobbone e fornitore di risorse economiche.
Una logica che a malapena andava bene sessant’anni fa, oggi è fuori dal tempo e andrebbe superata rapidamente. Le femministe, che si spacciano per essere in lotta per la “parità”, si guardano bene però dal caldeggiare una modernizzazione del sistema, un paritario accesso all’accudimento filiale, che sarebbe a tutti gli effetti la soluzione più equa ed efficace alla penalizzazione reddituale delle madri lavoratrici rispetto alle non madri, ma anche rispetto agli usualmente più ampi sviluppi di carriera degli uomini. La strategia più facile è quella di piagnucolare sul divario salariale di genere calcolato su enormi (dunque non significative) medie trasversali, di criminalizzare le donne che scelgono la maternità e di pretendere più privilegi in termini compensativi, inchiodando l’intero sistema su dinamiche totalmente fuori dal tempo. La rendita di questa posizione folle si applica anche a un altro aspetto: una condivisione paritaria degli oneri della maternità tra madre e padre comporterebbe infatti un pieno riconoscimento a quest’ultimo delle sue facoltà accudenti, con una ricaduta disastrosa per gli interessi che si esprimono nelle fasi di separazione coniugale. Anche per questo le femministe tacciono e, come al solito, non dicono la cosa giusta. Eppure il convitato di pietra, l’uomo desideroso di fare il padre tanto quanto (talvolta anche più) di fare carriera, è lì che attende da tanto tanto tempo di poter entrare in gioco e di essere chiamato ad assumersi la propria responsabilità. Verso la prole, anzitutto, ma anche verso la propria moglie, fidanzata o compagna e al suo desiderio di costruirsi una carriera appagante e redditizia.