La Fionda

Quando l’orco è lei: il tabù della pedofilia femminile

L’estate scorsa ha fatto “sensazione” nei media britannici un caso di abuso sessuale su minori da parte di una donna, arrivato a processo a maggio e i cui dettagli sono stati resi pubblici a luglio. La perpetratrice, riconosciuta colpevole e condannata a 6 anni e mezzo di prigione, è l’insegnante Rebecca Joynes, le vittime due allievi di 15 anni. Va detto che sebbene i media parlino di “pedofilia”, il termine è improprio: si parla di pedofilia quando l’interesse sessuale è rivolto a bambini impuberi (e di per sé il termine non indica un reato, che si configura quando tale interesse viene agito). Quindi per vicende di questo tipo è più corretto parlare di “abusi sessuali su minori”. Sottolineiamo anche che nel Regno Unito l’età del consenso è fissata a 16 anni mentre in Italia a 14, ma quelli della Joynes sarebbero considerati reati anche qui, vista la sua posizione di educatrice (caso in cui la legge italiana alza la soglia a 16 anni).

Tuttavia questa confusione ha fatto sì che, nella discussione mediatica del caso, emergesse il tema della pedofilia femminile e del doppio standard riservato alle perpetratrici donne rispetto agli uomini. Tralasciamo i dettagli, che vedono la donna farsi avanti coi propri allievi, iniziare una relazione sessuale con loro e in uno dei due casi (in cui la relazione è durata 18 mesi e ha portato addirittura a una gravidanza) agire anche comportamenti possessivi e opprimenti verso il ragazzo. Interessante è soprattutto il commento che fa della vicenda il Daily Mirror, coinvolgendo l’esperta Bricklyn Priebe, dell’Unità di Ricerca e Prevenzione della Violenza Sessuale dell’Università della Sunshine Coast. L’articolo, che titola La pedo-insegnante Rebecca Joynes è stata ‘motivata dalla solitudine e dal rifiuto’, dice l’esperta, comincia così: «Le educatrici abusive come Rebecca Joynes, scrive l’articolo, sono “motivate dalla solitudine e dal rifiuto”, a causa di “difficoltà nelle loro relazioni adulte”». A conferma, segue il racconto di come prima dei fatti la Joynes fosse stata lasciata dal suo compagno dopo nove anni di relazione e stesse soffrendo la situazione di crisi e solitudine.

Rebecca Joynes
Rebecca Joynes

Pedofilia intra ed extra familiare.

Poverine, insomma: sono stati degli uomini cattivi che le hanno portate ad arrivare a tanto. L’articolo però prosegue citando direttamente Priebe e si vede che il quadro posto dall’esperta è un po’ diverso: «Non c’è un’unica ragione; questo tipo di condotta è complesso, alcune donne possono essere in cerca di attenzione, del sentirsi desiderate, e magari sono motivate da difficoltà nelle loro relazioni adulte; altre possono essere del tipo predatorio» (corsivo nostro). Ma soprattutto aggiunge: «Spesso questo tipo di abuso non viene considerato, così come non si pensa ai rischi per le vittime. Una lunga storia di minimizzazione sociale e istituzionale dell’abuso da parte di perpetratrici donne contribuisce alla difficoltà nel riconoscere questo tipo di abusi e il danno che provocano». Un articolo del Daily Mail del 2021, informato da un’inchiesta di BBC Radio 4, registrava per il Regno Unito un aumento dei casi di abusi sessuali su bambini perpetrati da donne (riportati alla polizia) dell’84%, tra il 2015 e il 2019. La criminologa Andrea Darling, dell’Università di Durham, chiariva che il numero di casi di cui siamo a conoscenza è ancora molto inferiore alla realtà del fenomeno, perché è un tipo di crimine «tipicamente sottostimato e poco denunciato; contribuisce a ciò una scarsa comprensione del fenomeno, per cui un comportamento abusante, laddove la vittima è un ragazzo, tende a essere giustificato»

La ricerca disponibile sul tema è poca, ma concorda su un dato incontrovertibile: la pedofilia femminile esiste da sempre, e pur pesantemente sottostimata e quasi invisibile a livello sociale, ha un’incidenza vicina o pari a quella maschile (la stima minima certa è di almeno un caso di pedofilia femminile ogni tre maschili). Una vera e propria “rimozione di massa”. Scrive Claudia Graziano in un saggio del 2021: «Quando si parla di pedofilia, nell’immaginario collettivo scatta automaticamente la figura dell’uomo. In realtà, la pedofilia colpisce sia uomini che donne», ma «ammettere l’esistenza della pedofilia femminile crea inquietudine e angoscia in ognuno di noi, in quanto non si vuole accettare l’idea che la donna possa essere una potenziale violentatrice di bambini. Questo anche perché, generalmente, alla donna viene attribuita maggiore sensibilità e inclinazione alla cura e protezione dei bambini … la società è portata a difendere la donna in quanto si ritiene che la figura femminile sia naturalmente amorevole e, nella maggior parte dei casi, anzi, sottomessa». Graziano distingue nell’articolo tra la “pedofilia femminile intra-familiare” e quella “extra-familiare”, sottolineando come il primo tipo sia estremamente più subdolo e difficile da rilevare, anche per le vittime: «perché è spesso celata dietro gesti di cura abituali, sublimata in innamoramento o in pratiche di accudimento.

pedofilia

Il solito occhio di riguardo.

La stessa non si caratterizza per un comportamento violento, come accade invece di frequente nella pedofilia extra-familiare. Poiché la madre normalmente ha un contatto con il corpo del figlio, l’abuso che la madre effettua sul corpo del bambino sarà riconoscibile solo in adolescenza. Tutte le forme di abuso intra-familiare hanno ripercussioni fortemente deleterie sulla psiche del bambino, ma gli abusi sessuali materni sono particolarmente devastanti per il suo sviluppo emotivo, in quanto la violenza della madre è connotata da “confidence power”, ossia da una strategia deduttiva che controlla la propria vittima (figlio/a), sfruttando i suoi sentimenti naturali di confusione, obbedienza, devozione e fiducia». In una ricerca di F. Quattrini e A. Costantini del 2011 su Differenze di genere nel comportamento pedofilo: la pedofilia femminile si trovano conferme e ulteriori delucidazioni. Gli Autori scrivono: «Se ne parla poco, lo si conosce meno. Rappresenta un tasto dolente, un fenomeno scomodo che va a sconvolgere quelle certezze razionali, sociali, culturali e soprattutto emotive che fanno da pilastri all’esistenza di ciascuno di noi: la maternità e lo sviluppo psicofisico del bambino. Prevedere quindi una pedofilia femminile rappresenta una sorta di “tabù dei tabù”. In realtà la pedofilia femminile sembra essere sempre esistita al pari di quella maschile», tuttavia «è apparentemente molto meno frequente. La donna ricopre da sempre un ruolo maggiormente “passivo e morbido” rispetto a quello dell’uomo, ciò comporta il rischio di non (voler) cercare e non (voler) vedere la pedofilia femminile laddove potrebbe essere presente. Una buona fetta di pedofilia femminile è dunque “sommersa”, perché più mascherata e meno studiata rispetto a quella maschile».

Un altro dato interessante è che la pedofilia femminile su vittime maschili ha solitamente un impatto traumatico più pesante ed è più spesso correlata con il “ciclo dell’abusante abusato” da parte della vittima: in altre parole se un bambino è vittima di abusi sessuali da parte di una donna, facilmente agirà comportamenti pedofili da adulto, mentre questo si osserva raramente nelle vittime a sessi invertiti. Naturalmente però (c’era da dubitarne?) le donne che commettono questo tipo di crimini hanno spesso un “occhio di riguardo” da parte del sistema legale. Alcuni esempi: una babysitter “fa sesso con un ragazzo di 11 anni” (così dice il titolo dell’articolo), il giudice commenta «Lui era un 11enne maturo, lei era una ventenne immatura, quindi il gap aritmetico di età fra voi due va considerato ridotto» (6 mesi, pena sospesa). Un’insegnante ha una relazione sessuale con un allievo 15enne, il giudice commenta: «Posso capire lui – quale quindicenne rifiuterebbe un’offerta così allettante da una propria prof?» (16 mesi). Una docente abusa di quattro allievi tra i 13 e i 16 anni, il giudice commenta: «Tre dei quattro ragazzi erano consenzienti … la legge pertinente non si applica a atti perpetrati da donne su vittime maschili» (archiviazione).

Jacqueline Ma
Jacqueline Ma

Per avere una pena importante, una donna deve averla fatta veramente grossa e plateale, come il caso emerso alla cronaca in questi giorni di una insegnante californiana 35enne, Jacqueline Ma. La donna aveva vinto pochi mesi fa il premio di “Insegnante dell’anno” conferito dalla Contea di San Diego, e questo ha influito sulla condanna a 180 anni di galera, che saranno ridotti probabilmente a 30 come “premio” per la piena confessione: Ma ha confessato di aver avuto rapporti con un allievo di 11 anni e uno di 12, in un arco di tempo di molti mesi, durante i quali scambiava “lettere d’amore” e chat sessuali con i bambini, inviava loro video espliciti e ne chiedeva in cambio. Nonostante tutto ciò, il procuratore distrettuale Drew Heart si è affrettato a rassicurare i media che «Dal nostro punto di vista è essenziale sottolineare che la pena non riguarda tanto gli atti in sé quanto il fatto che siano avvenuti sotto costrizione, come la donna ha confessato, e l’abuso della propria posizione di educatrice e il tradimento della fiducia dei genitori, da parte di una persona che ha vinto anche un premio», insomma se non ci fosse stata “costrizione” e la signora non avesse vinto quel premio, si poteva anche essere meno severi e magari parlare di “storia d’amore” anziché di “abusi”, come i nostri media fecero nel caso della insegnante quarantenne di Bergamo che abusò di un allievo 13enne. In un altro caso tornato alla cronaca qualche giorno fa, una donna di Arezzo di 53 anni, separatasi dal coniuge nel 2021, è stata riconosciuta colpevole di violenza sessuale sul figlio 11enne, che viveva con lei: abusi ripresi e conservati sul cellulare, scoperti per caso dal padre che ha sporto denuncia. Per un reato così aberrante, che prevede fino a 12 anni di reclusione, il PM ne aveva chiesti 7, ridotti a 4 anni e 10 mesi grazie al processo con rito abbreviato.

Scrive Amanda Cairns sul Campbell Law Observer in un pezzo del 2022: «Le donne ricevono un buffetto sulla guancia, se si confrontano le loro sentenze con quelle che subiscono gli uomini. Un avvocato difensore è arrivato a dire che la propria cliente era “troppo carina” per andare in galera. Ma gli atti di questo tipo commessi da donne ci sembrano ugualmente criminosi rispetto a quelli commessi da uomini; anzi, in alcuni casi ci sembra chiaro che le donne si spingano più in là. Cosa rende un insegnante che fa sesso con una sua studentessa più deplorevole rispetto a una donna che fa esattamente lo stesso? C’è un evidente bias nelle sentenze riscontrate». L’articolo segue a dare un’interpretazione di questo bias in linea con quanto abbiamo osservato finora, aggiungendo l’osservazione per cui «Il modo in cui le relazioni sessuali tra donne mature e ragazzini è stata romanticizzata nei media (ad esempio in film come Il laureato e American pie) le ha normalizzate: è diventato socialmente accettabile, e anzi è talora considerato un passaggio obbligato della crescita. Ma i danni possono essere ugualmente pesanti». Chiudiamo con le parole di Carlotta Sisti su una testata non certo sospettabile di misoginia, Elle: «Per cui, ecco, c’è davvero bisogno di rivedere il modo in cui si parla di donne pedofile, che non sono in alcun modo meno colpevoli e meno letali degli uomini».



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