Questa è un’ordinaria storia di false accuse. Una delle innumerevoli che è possibile riscontrare nei tribunali italiani e di cui proviamo a tenere il conto affidandoci ai pochi articoli che di tanto in tanto ne danno notizia: la proverbiale punta dell’iceberg. Questa la raccontiamo nel dettaglio perché ha un retroscena più interessante ed emblematico di altre. I fatti: siamo a Reggio Emilia, dove un uomo di nazionalità marocchina, artigiano edile noto e apprezzato in città, viene trascinato in tribunale dall’ex moglie con l’accusa di maltrattamenti e lesioni. I due hanno divorziato nel 2013 in modo burrascoso, segnando la fine di un matrimonio da cui sono nate due figlie, ad oggi ancora minorenni. La burrasca della loro separazione nasce proprio dall’immancabile denuncia per violenze domestiche.
Gli inquirenti indagano e portano davanti al giudice fatti estremamente gravi. L’uomo avrebbe attuato «continue vessazioni fisiche e psicologiche, in particolare percuotendola (l’ex moglie) abitualmente con calci e pugni, colpendola con una cinghia in ogni parte del corpo, compreso il volto, scagliandola contro i mobili dell’appartamento, anche in presenza della figlia di tre anni, minacciandola con un coltello puntato al ventre, avvicinandola e spingendola verso la finestra aperta». Da brivido. Il 21 febbraio 2014 la donna, a seguito dell’ennesima aggressione dell’ex marito a calci e pugni, finisce in pronto soccorso, dove le vengono refertate ferite guaribili in… tre giorni. Ma non è tutto: durante il procedimento la donna dice di essere stata più volte chiusa in casa dall’uomo, un vero e proprio sequestro di persona.
Una palese falsa accusa, come da prassi.
Insomma un quadro accusatorio pesantissimo che però durante il procedimento, conclusosi di recente (durato quindi otto anni), traballa. Viene sentita una vicina di casa che, che aiutava la famiglia nordafricana facendo le pulizie e tenendo i figli: mai sentiti rumori strani provenire dai vicini, una famiglia come tante, prima che iniziassero a separarsi. Anzi in un caso testimonia di aver accompagnato l’uomo al pronto soccorso dopo un’aggressione della donna (8 giorni di prognosi). Le accuse non traballano più ma si sgretolano proprio quando viene sentita una delle figlie dell’uomo che svela di essersi confidata con la vicina dicendo di aver confermato i racconti della madre «per paura di dire il contrario. Lei mi aveva detto di dire così…». Cioè la bambina ammette di aver confermato le violenze dell’uomo, evidentemente non vere, su ordine della madre e per paura delle conseguenze nel caso le avesse smentite.
Non basta: si aggiunge la proprietaria di un negozio etnico dove la presunta vittima di violenze si recava regolarmente a fare la spesa. Una mamma come tante, testimonia la donna, che passeggiava con la figlia in carrozzina nel parco, non certo una persona che spariva perché sequestrata in casa dal coniuge. Ma perché l’ex moglie avrebbe inventato tutto? La spiegazione la dà l’artigiano sotto accusa: il lavoro edile non andava più bene, c’erano difficoltà economiche, volevo rientrare in Marocco, ma lei era contraria, e ha cercato un modo per sbarazzarsi di me. Tutto come da prassi, insomma (nella quale usualmente si inserisce l’attività di un centro antiviolenza, ma in questo caso non se ne ha notizia): negli ultimi 10 anni solo un risibile 15% delle denunce per maltrattamenti in famiglia finisce ogni anno con una condanna (dati ISTAT), tutto il resto, nella quasi totalità dei casi, sono false denunce che vengono archiviate o finiscono in assoluzione. Non ci vuole molto per capirlo, eppure…
Una PM con queste idee (pregiudizi?) è preoccupante.
Eppure la vera notizia sta qui: nonostante le evidenze, la PM Maria Rita Pantani, invece di chiedere l’archiviazione, chiede per l’uomo una condanna a due anni di carcere. Richiesta respinta: il giudice fa propria la tesi difensiva dell’Avv. Ernesto D’Andrea e manda assolto l’uomo «perché il fatto non sussiste». Resta la domanda: per quale motivo, nonostante la convergenza delle testimonianze e delle prove, la pubblica accusa ha chiesto la condanna dell’uomo? Nell’ordinamento italiano, contrariamente ad altri di altri paesi, il PM deve accertare che sia avvenuto un reato e chi ne sia l’autore, non deve limitarsi a individuare un colpevole purchessia. Basta una breve ricerca sulla PM Pantani per capire un po’ di più di quanto accaduto a Reggio Emilia in questo caso. Lei stessa si proclama “esperta dei reati di genere” e propone una soluzione: più soldi, percorsi più duri per gli uomini maltrattanti, pene più severe e (rullo di tamburi) nuove leggi. Anzi su questo ha una proposta precisa: la flagranza differita. Flagranza significa venire colti sul fatto mentre si commette un reato, cosa che comporta l’arresto obbligatorio (art.380 Codice di Procedura Penale). Il concetto della Dr.ssa Pantani pare dunque essere: occorre fare una legge per cui, quand’anche un uomo non venga preso in flagrante a maltrattare e fare violenza, possa essere arrestato in termini differiti (cioè dopo) essenzialmente sulla base della dichiarazione della donna presunta vittima.
Sappiamo che siete saltati sulla sedia leggendo “flagranza differita”, sappiamo che suona come un ossimoro tipo “ghiaccio caldo” o “orrida bellezza”, ma è un errore. La flagranza differita in realtà è già utilizzata in frangenti specifici, ad esempio per le manifestazioni di piazza o il teppismo da stadio. Non potendo infilarsi nelle folle per arrestare “in flagranza” singoli facinorosi, li si va ad arrestare dopo che hanno commesso dei reati. Solo che, in quei casi, la commissione del reato è asseverata da immagini video incontrovertibili e oggettive. Un’oggettività che la Dr.ssa Pantani sembrerebbe voler eliminare per legge nel caso delle violenze maschili contro le donne, affidando la prova del reato “in flagranza” all’autocertificazione della presunta vittima, tale da rendere automatico l’arresto del presunto colpevole. Insomma la proposta della Dr.ssa Pantani avrebbe l’effetto di far scivolare l’ordinamento italiano ancora più nel profondo del pantano della soggettività autocertificata della presunta vittima (donna) come strumento di riconoscimento dell’avvenuto reato. Un pantano dove l’ordinamento già langue a partire dalla legge anti-stalking del 2009. La nostra opinione è che si tratti di una proposta profondamente lesiva dello Stato di Diritto per come si è sviluppato dal diritto romano ad oggi. E riteniamo molto preoccupante che un Pubblico Ministero sia portatore di idee (pregiudizi?) di questo tipo, specie se sorge il sospetto che le applichi quotidianamente nel proprio ruolo. Ad esempio chiedendo condanne per uomini palesemente innocenti e costringendoli a procedimenti costosi e lunghi otto anni. Durante i quali, ci scommettiamo, l’uomo ha potuto frequentare i propri figli con il contagocce, sempre che gli sia stato concesso di frequentarli.