Secondo voi, qual è il miglior film western di sempre? Difficile scegliere fra una vasta gamma di titoli tutti in apparenza ugualmente validi. Forse lo si trova tra i film classici, come Ombre rosse (1939), Il fiume rosso (1948), Mezzogiorno di fuoco (1952), Sentieri selvaggi (1956), I magnifici sette (1960) o L’uomo che uccise Liberty Valance (1961). Forse tra film più moderni, come Butch Cassidy (1969), Balla coi lupi (1990), Gli spietati (1992) o The Hateful Eight (2015). Oppure tra la meritevole produzione cinematografia di western italiani, come Per un pugno di dollari (1964), Il buono, il brutto, il cattivo (1966), C’era una volta il West (1968) o Lo chiamavano Trinità (1970). Oppure potrebbe essere un film, parimenti meritevole, che non ho menzionato. Negli ultimi anni nelle riviste specialistiche è diventato comune trovare liste dei migliori film di sempre, anche divise per genere, liste che per ovvi motivi non coincidono sempre. I gusti sono gusti, ognuno ha i suoi. Comunque, anche se i gusti sono soggettivi, rientrano nella nota curva di distribuzione di Gauss, in cui il valore medio rispecchia i gusti più frequenti nella popolazione, mentre i gusti più rari rimangono in maniera limitata alle estremità. Per questo motivo i film nei primi posti, in ognuno di questi elenchi, tendono a ripetersi negli altri elenchi.
Di recente, il giornale maschile statunitense Esquire ha pubblicato la top 10 dei più bei film western di tutti i tempi. «La prima posizione? Inaspettata. Si tratta di Johnny Guitar, diretto da Nicholas Ray (Gioventù bruciata) nel 1954. Il motivo per cui IndieWire ha incoronato Johnny Guitar come miglior pellicola western di tutti i tempi è soprattutto il personaggio di Joan Crawford, che ribalta una prospettiva maschile tradizionalmente associata al genere». Secondo questa classifica il film Johnny Guitar (1954) sarebbe il più bel film western di tutti i tempi. Il motivo della scelta non è basato sulla trama, o sulla scenografia, o sulla recitazione, o su qualsiasi altro elemento tecnico che vi possa venire in mente, o sulla combinazione di ognuno di questi elementi. Il motivo, come viene esplicitato, è ideologico: «ribalta la prospettiva maschile». «“Nel momento in cui arriva questa donna singolare, vestita con pantaloni e camicia elegante, è chiaro che il personaggio del titolo conta solo in relazione a lei”, si legge nelle motivazioni della rivista. Anche per questo, cioè per il fatto che non è Johnny Guitar / Sterling Hayden il vero protagonista della storia, l’antagonista maschile è poco più di una funzione narrativa». E ancora, «la forza drammatica del film invece ha origine dalla rivalità tra Vienna – Crawford ed Emma Small – Mercedes McCambridge, una reazionaria che odia la prima per motivi personali. A lungo, questa rivalità è stata interpretata in chiave queer: “Se il western è passato di moda ed è stato liquidato come conservatore e regressivo, Johnny Guitar dimostra come il conservatorismo non sia affatto intrinseco al nucleo del genere”».
Il “messaggio migliore”.
Per chi ha avuto la fortuna di vedere Johnny Guitar, come me, potrà confermare che non è un film malvagio, ma siamo ben lontani dal capolavoro, e dal farlo spiccare nella classifica tra i migliori film western, quando non dall’innalzarlo al primo posto in assoluto, come ha pubblicato la rivista Esquire. La questione, tra l’altro, risulta un po’ disturbante e parecchio dissacrante, tenuto conto del genere scelto, il western, un genere che ha puntato sempre su valori marcatamente virili, su protagonisti maschi e trame che mettono l’accento sul coraggio, sul sacrificio, sull’onore, sull’amicizia, sul dovere… Questa non è la prima classifica che ha rivoluzionato il mondo della cinematografia in chiave femminista. Qualche anno fa la rivista Sight and Sound aveva decretato che il miglior film di sempre era Jeanne Dielman, 23, Quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1975), della regista Chantal Akerman. Prima volta che è salita sul podio un film diretto da una regista donna. Quindi dimenticate Il Padrino, Le ali della libertà, Quarto potere, Via col vento, Alien, Lo squalo, Apocalypse Now, Cantando sotto la pioggia, Ben-Hur… La trama del film, che nessuno ha visto e in pochi conoscono: «Il film racconta con una grande minuzia descrittiva tre giorni della vita disperata e ripetitiva di una donna, Jeanne Dielman». Alcuni sostengono che si tratta di «un film insopportabilmente noioso, lungo 3 ore e 21 minuti». Altri, che si tratta di «un capolavoro femminista che ha cambiato il cinema». Afferma il Corriere della Sera: «Ed è proprio quest’ultima definizione, probabilmente, la causa della seconda vita di un film uscito nel 1975 e non proprio in cima ai pensieri dei cinefili. I tempi sono cambiati e oggi molti premi – dai Nobel ai Leoni d’Oro – vengono assegnati non tanto per la qualità artistica quanto per quello che una volta veniva definito il «messaggio». Cioè per l’adesione a cause nobili, o presunte tali, e per questioni politiche, di genere o protezione delle minoranze».
In altre parole, “i tempi sono cambiati e oggi molti premi vengono assegnati non per i loro meriti ma per la loro adesione ideologica”. La stessa cosa che avviene in qualsiasi regime dittatoriale, i premi hanno una funzione propagandistica e di indottrinamento, non si ricompensano i meriti o i risultati ma si premia l’affiliazione ideologica. E questo avviene non solo nel mondo cinematografico (Leoni d’Oro, Oscar…) ma, come riconosce lucidamente il Corriere della Sera, in ogni ambito, dai Nobel ai riconoscimenti politici, economici o storici. Non è premiato il migliore ma è premiata una posizione ideologica. Così nello sport le imprese femminili vengono parificate alle imprese maschili, anche quando le prestazioni sono di gran lunga inferiori. Così nelle ricerche scientifiche oppure nei movimenti politici vengono patrocinate donne, non per i loro meriti ma per la loro condizione femminile. Così nei libri scolastici o nella toponomastica vengono affiancati a personaggi di indubbio valore storico, artistico, scientifico, come possono essere Napoleone, Michelangelo o Einstein, altri nomi, perlopiù sconosciuti e di un valore in ogni ambito di gran lunga inferiore, grazie all’unica condizione meritevole di essere donne. E così in ogni ambito e in ogni settore, nell’ambito militare o nella letteratura, nella comicità o nella musica. Un riconoscimento immeritato non solo sociale ma spesso anche economico. E, come vedete, senza alcun pudore, non è necessario nascondersi dietro una qualsiasi giustificazione, il motivo è proclamato esplicitamente, riconosciuto da tutti, da Esquire al Corriere della Sera: le opere premiate non sono le più meritevoli ma sono quelle che trasmettono il «messaggio» – eufemismo di “propaganda” – migliore.
Il racconto storico femminista e distorto.
Forse qualcuno vorrà rinchiudere queste sempre di più ricorrenti notizie nell’ambito dell’aneddoto, episodi marginali e curiosi senza importanza, ma non è così. La diffusione e ammissione di questo stato di cose da parte del settore specifico interessato e del mondo giornalistico, senza che ci sia una critica spietata e feroce di fronte a una tale palese quanto illogica scelta, quel lasciar passare e lasciar perdere di fronte al re, che è nudo e che nessuno si azzarda a proclamare che è nudo, prova unicamente il grado di degradazione della società assoggettata all’ideologia femminista, una società disposta ad abbandonare valori in teoria irrinunciabili come la giustizia, la non discriminazione, la ragionevolezza e la logica per adeguare la propria visione al beneplacito degli inquisitori ideologici. Quelli che oggi non sono in grado di proclamare che la designazione di Johnny Guitar o di Jeanne Dielman rispettivamente come il miglior western e il miglior film di tutti i tempi è una immensa fesseria, il trionfo dell’assurdità, la sconfitta della logica piegata al volere dell’ideologia dominante, non sono in grado di denunciare l’ingiustizia che subiscono i padri separati, allontanati dai loro figli, la violazione della presunzione di innocenza maschile nei processi penali che hanno come controparte una donna o le normative discriminatorie e antimaschili nei più svariati ambiti, per nominare solo alcune delle questioni oggi più controverse. Chi non è in grado di proclamare che il re è nudo per una sciocchezza non è in grado di proclamare che il re è nudo per cose molto più serie. La sottomissione della logica e della giustizia al volere dell’ideologia non dovrebbe mai avvenire, a nessun livello, perché non esistono passaggi intermedi per quelli che vivono nel mondo della paura, dell’indifferenza o dell’irragionevolezza e lasciano correre.
Infine, vorrei concludere questo ciclo sulla produzione cinematografica degli ultimi interventi, dove ho parlato di C’è ancora domani (un altro esempio di un film con evidenti problemi di sceneggiatura, oltre alla pubblicazione alla fine del film di dati errati e falsi, che continua a vincere premi e riconoscimenti per motivi ideologici), Mulan 2 e Via col vento, con un ultimo spunto di riflessione tratto dal film Johnny Guitar. «Nel film western Johnny Guitar (1954), un uomo e una donna sono accusati di una rapina e condannati all’impiccagione. Un gruppo di uomini esegue la condanna e il maschio viene impiccato. Dopodiché tocca alla donna complice, ma tutti si rifiutano di spingere il cavallo per far finire la donna impiccata, anche quando viene offerto a loro un sostanzioso premio economico: 100 dollari. In questo mondo di rudi e violenti pistoleri, dovrà essere una donna a colpire l’anca del cavallo. Cosa impediva a questi uomini, inclini ai linciaggi, di giustiziare una donna, come lo avevano fatto per l’uomo?» (tratto dall’opera La grande menzogna del femminismo, a p. 173). A dir la verità, non si tratta di un uomo ma di un adolescente, un ragazzo che ha il terrore di morire e che supplica di continuo di lasciarlo in vita. Questi uomini di frontiera, rudi e violenti ma con i loro principi, non si fanno problemi a impiccare un ragazzino, ma i loro principi li impediscono di uccidere una donna. Questo asimmetrico trattamento non è stato un gesto isolato, esclusivo dalla cultura del far west americano, ma si tratta in realtà di un comportamento molto diffuso in quasi tutte le società lungo tutta la Storia. Cavalleria maschile. Le donne vengono protette e trattate con riguardo a prescindere. Chissà come mai questo asimmetrico trattamento non ha trovato la giusta collocazione nel racconto storico femminista.