Cosa non ci si inventa per avere più privilegi, da un lato, e raccattare un po’ di voti, dall’altro! Di tutto, anche le cose più assurde. Se ne è avuta prova settimana scorsa con l’Equal pay day, una sorta di ricorrenza voluta dall’Unione Europea per indicare in modo efficace il divario salariale di genere. Una genialata comunicativa di quelle che solo le menti malate del femminismo internazionale sanno partorire: “da oggi e fino alla fine dell’anno le donne lavorano gratis”, dice lo slogan. Dato che in Europa la differenza salariale media tra uomini e donne è del 16% circa, sul piano meramente retorico ed evocativo è come se per un tot di giorni all’anno le donne non venissero pagate. Un astutissimo modo di comunicare che colpisce alla pancia tutti i tantissimi che con la pancia (ahimè) ragionano. Sta alla pari con “una donna uccisa ogni tre giorni”, formula tanto scioccante quanto facile da mandare a memoria. L’una e l’altra però sono prive di fondamento. In particolare quella sul paygap è una sciocchezza perché appunto calcolata sulle medie generali di tutti i redditi maschili e femminili poi messi in comparazione.
Eppure ancora questa manipolazione statistica fa breccia, o per lo meno viene affermata con insistenza e senza imbarazzi e per i più risulta vera o verosimile. Così si crea lo scenario psicologico, sociale e culturale per accogliere come se fosse cosa normale l’iniziativa legislativa presentata alla Commissione Lavoro della Camera e innescata dal PD (who else?), in particolare dalla parlamentare Chiara Gribaudo, di istituire un “testo unico sulla parità salariale tra uomo e donna”. Che roba sarebbe? Le interpellate, la Gribaudo stessa e Debora Serracchiani, cercano di girarci intorno: “il testo unico confermerebbe un principio stabilito in Costituzione, ma che non viene applicato”. Cosacosacosa? E quale sarebbe mai? Alla fine sono costrette a dirla chiara: il principio costituzionale non applicato sarebbe quello secondo cui “a parità di lavoro una donna non può essere pagata meno di un uomo”. Il riferimento è evidentemente all’art.37, che recita: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”. Se tra i lettori c’è qualche esperto di diritto del lavoro, di certo ora si starà tenendo la pancia dal ridere. Be’, stiano pronti perché non è finita qui.
Il divario salariale di genere in Italia è già illegale.
Per rafforzare il concetto, si cita il posizionamento dell’Italia nell’ultimo report sul gender gap del World Economic Forum. Siamo a un ignominioso settantaseiesimo posto su 153. “Un dato che è semplicemente impresentabile per un Paese del G7”, commenta l’on. Gribaudo. “Le donne che lavorano subiscono penalizzazioni di ogni tipo, a cominciare dal salario inferiore del 20% rispetto a quello degli uomini”. La Confederazione dei sindacati europei in realtà ha certificato un gap, in Italia, del 5%, ma che vuoi che sia la differenza di 15 punti percentuali di fronte alla necessità di fare un po’ di propaganda? D’altra parte, se si arriva a citare il report del World Economic Forum, vuol dire che si è aperti a qualunque tipo di mistificazione. Già tempo fa raccontammo il trucchetto di quel report: i dati vengono aggregati in modo tale da far apparire le donne sempre e in ogni caso penalizzate, ma soprattutto i paesi vengono bocciati se esiste un gap a danno delle donne, promossi se c’è parità, ma promossi anche se esiste un gap a danno degli uomini. Alla facciazza della parità.
Il punto però resta un altro. Ed è che ci sono alcune parlamentari che, di fatto, stanno sostenendo che in Italia non viene applicato il diritto del lavoro in generale, e in particolare i contratti collettivi nazionali di lavoro. Il che è gravissimo. Perché questo e solo questo può voler dire la denuncia della non applicazione dell’art. 37 della Costituzione. Il quale non dice che un’impiegata deve avere lo stesso stipendio di un impiegato, una primaria di un primario, un’insegnante di un insegnante, una commessa di un commesso, una telefonista di un telefonista, e così via. L’articolo intende che la legge deve garantire che non ci siano disparità salariali causate dal sesso del lavoratore. E in Italia il diritto del lavoro e i CCNL, su ci vigilano per altro anche i sindacati, vanno proprio in questa direzione. Solo che non parlano di “lavoro” generico, bensì di inquadramenti, livelli, ore lavorate, full-time/part-time, straordinari, ferie, anzianità di servizio, superminimi, ritenute fiscali, bonus, e una pletora di altri istituti cui vanno ad aggiungersi le libere scelte individuali. Nel nostro paese è illegale, a parità assoluta di tutti questi parametri, pagare di meno una donna perché è donna. Infatti nessuno lo fa. Anche perché se fosse davvero possibile farlo, tutte le aziende assumerebbero solo donne e risparmierebbero milionate ogni anno sui costi del personale.
Per l’equità salariale si taglieranno gli stipendi degli uomini.
Dunque Gribaudo, Serracchiani e tutta la compagnia di giro che trasversalmente appoggia queste proposte, dicono balle o mistificano la realtà, o tutte e due le cose assieme, ovviamente stando davanti al megafono che i media asserviti gli piazzano davanti alla bocca. Ma dunque se è, come è, tutta fuffa, dove vogliono arrivare costoro? È piuttosto facile capirlo: vogliono la parità dei salari. Ma la parità come la intendono loro. Immaginate una infermiera appena entrata in servizio in un ospedale e che, per ragioni sue, ha optato per il part-time. Ebbene l’obiettivo è che venga pagata tanto quanto l’infermiere che lavora in quell’ospedale da 15 anni e tutti i giorni fa almeno tre ore di straordinario. E che l’integrazione le venga garantita per la sola ragione di essere donna, non altro. Una regalia di Stato riservata a un genere solo o, se si vuole, un appiattimento bolscevico delle remunerazioni individuali attuato sulla base del genere. Questo vogliono ottenere loro e tutte quelle che negli ultimi tempi blaterano insistentemente di divario salariale di genere. Domanda: come coprire il gap? Ultimamente va di moda appellarsi al “Recovery Fund”, verso il quale colano copiose le bave di tutta la corporate donnista italiana. Sempre che quei denari arrivino. E se non arrivano, come si parificano gli stipendi “alla maniera femminista”? Semplice: a quel punto si potrebbero tagliare quelli maschili. L’infermiere di cui sopra dovrà continuare a fare il suo full-time con straordinari, con il suo inquadramento e la sua anzianità, e prendere quanto la collega appena arrivata, inesperta e in part-time. Vi è più chiara così la prospettiva possibile? Bene. Speriamo allora che il silenzio tombale che accompagna queste iniziative sia solo per un momentaneo sbigottimento, quello che precede la rivolta, e non la solita accettazione passiva del sopruso e della menzogna.