Patriarcato e “glass ceiling“, soffitto di cristallo, sono concetti forti un tempo, ma ormai abusati e cominciano a perdere colpi. Perciò, per poter continuare a propalare l’archetipo della “donna-vittima a prescindere” bisogna confezionarlo con nuovi vestiti. Federica Benassi, counselor sistemico-familiare e autrice del libro L’educazione dei maschi (sottotitolo: “Per un mondo senza femminicidi” e “Per le generazioni di domani, più giuste e più uguali”, senza specificare però uguali a cosa, di preciso) propone ad esempio il “figliarcato”, come illustra Erika Riggi in un articolo per IoDonna: ok quelle famiglie dove «l’impronta patriarcale è ben visibile», ma se la “violenza di genere” si verifica in «famiglie con assetti diversi»? Che si fa? Si tira fuori un nuovo coniglio dal cappello, ovvio: in quel caso la colpa è del “figliarcato o figlicrazia”, cioè l’incapacità dei genitori di saper «dire no autorevoli, che siano davvero no». Che questo sia il ruolo tipicamente maschile e paterno l’autrice sembra saperlo, infatti parla di «“padri peluche”, “padri molli”, compagni di giochi, compiacenti e gratificanti, che non rappresentano per i figli maschi un convincente modello “virile”», mentre al contempo «le madri sono “multitasking”: donne di questo tempo, quindi super emancipate, ma anche madri performanti, con tutto il lavoro di cura sulle loro spalle. Ansiose e ansiogene».
Ebbene, non è precisamente questo il modello di uomini e donne, coi “ruoli di genere” sballati, che il femminismo propina e lavora per affermare da decenni? La logica conclusione non dovrebbe essere quella di tornare a modelli più equilibrati e collaborativi? No, per Benassi la colpa è solo e comunque degli uomini: «riporta alcuni passi di un saggio di Alberto Leiss, secondo cui “il segno della violenza maschile deriva oggi dall’incapacità maschile di accettare la nuova libertà, la forza e l’autorità delle donne. La dinamica che si ripete è quella di maschi che non sopportano la decisione delle compagne, mogli, figlie, di scegliere diversamente da quello che si aspettano in termini di obbedienza, fedeltà, sottomissione”». Pare di leggere un qualche passo dell’Antico Testamento: Benassi e Leiss si sono accorti che siamo nel 2025? Gira che ti rigira, nonostante i concetti di “padre peluche” e “figliarcato”, il problema è sempre l’uomo che vuole dominare e opprimere la donna. Il patriarcato riimbustato con un’etichetta diversa, per continuare a venderlo: cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia.
Una pioggia di concetti da marketing.
La redazione di Economia Magazine in questo articolo ammette già dal titolo che il “soffitto di cristallo” è “rotto”: ma non si creda che il problema sia finalmente risolto, non sia mai. Ci sono ormai molte donne in posizioni apicali, certo, ma “molte organizzazioni internazionali hanno evidenziato la persistente difficoltà delle donne nel raggiungere posizioni di leadership, sia all’interno delle aziende che del mondo accademico, politico e istituzionale”. E però non si può più continuare a menarla col “glass ceiling”, anche perché si è “rotto”… Allora ecco dei concetti nuovi di pacca, freschi freschi appena sfornati, da poter lanciare al malcapitato di turno che provi a obiettare, per poter continuare a trincerarsi dietro la condizione di “vittima per definizione e ad infinitum”: anzitutto lo “sticky floor”, “pavimento appiccicoso”, «che registra la tendenza delle donne a rimanere relegate nella parte bassa della gerarchia organizzativa, in funzioni di staff e middle-management». Che questa “tendenza” rifletta le libere scelte delle donne non è una possibilità da prendere in considerazione neanche lontanamente, giusto?
L’insieme di “glass ceiling” e “sticky floor” «fa emergere chiaramente un ulteriore aspetto, quello della sovraistruzione delle donne che spesso si ritrovano in possesso di un titolo di studio superiore a quello richiesto per il ruolo lavorativo che ricoprono». Già, perché questo agli uomini non succede proprio mai, chi l’ha mai visto un uomo fare un lavoro al di sotto dei propri titoli e qualifiche? Non esiste, è come dire un unicorno o il 30 febbraio. Un altro nuovo scintillante concetto è quello di “labirinto di cristallo” da sostituire al vecchio e ormai non più efficace “soffitto”: «più appropriata per descrivere la varietà di ostacoli che incontrano le donne durante la loro permanenza nel mercato del lavoro» tra cui la “child penality”, «il diverso impatto che la genitorialità ha sulle lavoratrici rispetto ai lavoratori». Forse per uscire dal labirinto potrebbe essere un buon inizio eliminare le ingiustificate disparità “di genere” (a sfavore degli uomini) nei congedi parentali e nelle sentenze di affido in caso di separazione, e tornare a dare la dovuta importanza alla figura paterna nella famiglia e nella società?
Dal soffitto alla scogliera di cristallo.
Ma sorvoliamo e passiamo alla nuova meraviglia: «il concetto di “glass cliff” o “scogliera di cristallo”, identificato da Michelle Ryan e Alexander Haslam dell’Università di Exeter nel 2004, che indica la maggior probabilità che le donne siano promosse a posizioni di leadership in momenti critici o di crisi, quando il rischio di fallimento è particolarmente alto. Se in condizioni “normali” si predilige una leadership maschile, spesso associata ad assertività e determinazione, in tempi difficili si ricercano, invece, competenze legate alla sfera emotiva, alla gestione del cambiamento e all’empatia, tratti che riflettono uno stereotipo femminile di tipo materno e relazionale». Bello, qua stavo quasi abboccando, ma poi ho letto il primo esempio di “glass cliff” (cioè ribadiamo, scegliere di promuovere una donna a una posizione di leadership in un momento di crisi e proprio in virtù delle sue competenze legate alla sfera emotiva e all’empatia): Margaret Thatcher. Ok, come non detto. Quello che mi piace di più è l’ultimo, il “queen bee effect”, “effetto ape regina”, «secondo cui alcune donne, una volta raggiunte posizioni di leadership in contesti tradizionalmente dominati da uomini, finiscono per aderire a quello stesso sistema di potere che le ha ostacolate. L’effetto si manifesta, ad esempio, nel mantenere una certa distanza dalle “sottoposte”, enfatizzando la propria maggior dedizione al lavoro e nell’assimilare modelli tradizionalmente maschili di comando». Tradotto dal supercazzolese, le donne una volta arrivate in una posizione di comando si comportano secondo tutti gli stereotipi negativi (egotismo, prepotenza, abuso di potere) che si associano al modello di leadership maschile.
Ma ovviamente non è colpa loro se si comportano così, sono obbligate dal “sistema” patriarcale che le discrimina in modo strutturale. Lo spiega Margherita Capelli, consultant di Idem-Mind the gap (“start-up universitaria che accelera il percorso di tutte quelle organizzazioni che vogliono impegnarsi (davvero!) a raggiungere la Gender Equality” e offre all’uopo “tool di analisi e misurazione”, un “percorso di certificazione” e “interventi consulenziali mirati”): «fenomeni come il glass cliff e il queen bee effect sono indicatori di un problema più profondo e strutturale: l’esistenza di un sistema che perpetua disuguaglianze di genere, anche nei contesti di leadership». Per risolverlo non sono le donne che devono assumersi la responsabilità della propria gestione del potere e modificarla, ci mancherebbe: sono le organizzazioni a dover «riconoscere queste dinamiche e impegnarsi a creare ambienti di lavoro dove le donne non solo abbiano accesso alle posizioni di vertice, ma possano anche operare senza dover conformarsi a modelli di leadership non inclusivi o affrontare situazioni di crisi sproporzionate». E immancabilmente, precisa Nicole Boccardini, operations manager di Idem-Mind the gap, «Il cambiamento non può essere affidato esclusivamente alle donne: è necessario coinvolgere tutti, sia a livello istituzionale, che sociale, che aziendale, compresi gli uomini, come alleati in un processo di trasformazione culturale». No grazie, Nicole. Per questa volta passo. Come accettato.