“La parità salariale tra uomini e donne è legge. E il Lazio è la prima regione d’Italia in cui ciò avviene”, così esordisce l’articolo di Repubblica. Non vale nemmeno la pena mostrare che in Italia per uomini e donne è già prevista la parità retributiva: dalla Costituzione, dalla legge Anselmi, dai contratti collettivi nazionali; per non parlare poi delle commissioni e dei consigli istituiti presso gli enti nazionali e locali, di tutte le iniziative volte esclusivamente a favorire l’occupazione e la formazione femminile, le quote rosa (propriamente dette o sotto altro nome). Su queste pagine e in rete ci saranno già decine (se non centinaia) di articoli volti a illustrare tutto questo e a sbugiardare il contenuto della propaganda sul gender pay gap. Non parleremo neanche dei morti sul lavoro, tutti uomini e che si contano al ritmo di 4 al giorno. Cercheremo di mostrare invece come queste misure non perseguano la parità, anzi. Il contenuto del provvedimento, che non può eliminare una discriminazione che non esiste (perché, lo ribadiamo, nel nostro ordinamento è severamente vietato dare una retribuzione diversa in base al sesso o meglio, ci sono delle eccezioni, ma sono a favore delle donne: comma 2 art. 25 del Codice delle pari opportunità), può essere suddiviso in due parti. Una prima parte dal contenuto puramente ideologico (contrasto ai differenziali retributivi di genere, la valorizzazione delle competenze delle donne, la diffusione di una cultura organizzativa non discriminatoria nelle imprese) e un’altra che statuisce una serie di fondi, dazioni e privilegi per il genere femminile. Ne riportiamo una parte:
“Il provvedimento approvato prevede uno stanziamento regionale di 7,66 milioni di euro per il triennio 2021-2023 che, insieme alle risorse provenienti dalla programmazione comunitaria 2014-2020 (fondi Fse e Fesr), servirà per sostenere molteplici misure multisettoriali destinate ad un’ampia platea di soggetti beneficiari:
– l’istituzione della “Giornata regionale contro le discriminazioni di genere sul lavoro”;
– l’occupazione femminile stabile e di qualità, attraverso contributi per le micro, piccole e medie imprese (MPMI) per la formazione di neoassunte a contratto a tempo indeterminato;
– il reinserimento sociale e lavorativo delle donne vittime di violenza o con disabilità, attraverso contributi da erogare agli enti locali per l’attuazione di progetti di iniziativa degli enti del Terzo settore;
– la riserva a valere sul Fondo del microcredito per le donne in situazioni di disagio sociale, alla quale si aggiungeranno anche le risorse provenienti da soggetti privati (ad esempio, al momento è già previsto un versamento di 90 mila euro per l’anno 2021 da parte del gruppo consiliare regionale del Movimento 5 Stelle) e quelle provenienti dall’utilizzazione dei fondi comunitari della nuova programmazione 2021-2027;
– il sostegno all’accesso al credito delle piccole e medie imprese a prevalente partecipazione femminile e delle lavoratrici autonome, nell’ambito del Fondo di garanzia per le Pmi della legge n. 662/1996;
– l’erogazione di buoni per l’acquisto di servizi di baby-sitting e di caregiver e altre azioni positive in tema di condivisione delle responsabilità di cura e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Quest’ultima misura prevede buoni erogati per l’acquisto di servizi di baby-sitting per le madri lavoratrici, anche autonome, o imprenditrici, per gli undici mesi successivi al periodo di congedo obbligatorio di maternità ovvero al congedo parentale, purché il nucleo familiare abbia un reddito Isee non superiore a 20 mila euro. Tali buoni potranno essere concessi, in via sperimentale, anche ai padri lavoratori che usufruiscono del congedo parentale, in alternativa alla madre lavoratrice.
La nuova legge prevede anche l’istituzione di un “Registro regionale delle aziende virtuose in materia di parità retributiva”, alle quali saranno attribuiti benefici economici e premialità nonché titolo preferenziale “negli appalti pubblici per l’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di competenza della Regione o degli enti dalla stessa dipendenti o comunque controllati”, si legge all’articolo tre. In occasione della istituenda “Giornata regionale contro le discriminazioni di genere sul lavoro”, da celebrarsi ogni anno il 7 giugno, verranno premiate le aziende iscritte nel Registro regionale che si saranno particolarmente distinte nell’ambito della riduzione del divario salariale o che abbiano messo in pratica particolari e innovative azioni in materia di parità”.
Letto questo con attenzione, ha senso chiedersi: si stanno rimuovendo una o più leggi che consentono retribuzioni diverse in base al sesso oppure se si stanno stabilendo e irrobustendo privilegi e prebende per una parte della popolazione, con una sorta di commissariamento delle imprese, che se non si adeguano nel favorire le donne e discriminare gli uomini verranno penalizzate? Per capirlo occorre inquadrare correttamente la realtà sociale nel quale si innestano questi provvedimenti. I ritiri scolastici riguardano in netta prevalenza gli uomini, i suicidi maschili sono in aumento e costituiscono già l’ottanta percento dei suicidi, poi abbiamo i senzatetto, l’aumento dell’uso di psicofarmaci, il ritiro più generale degli uomini dalla società, l’aumento della disoccupazione e della mancanza di prospettive. Complementare alla rinuncia, alla caduta silenziosa o fragorosa, vi è il modo in cui gli uomini considerano sacrificabile il bene della propria salute. Perché così tanti uomini, pur di avere una retribuzione, accettano di spaccarsi la schiena nei cantieri? Perché accettano di lavorare in assenza di sicurezza? Perché accettano attività che erodono totalmente gli spazi per una vita sociale ed affettiva? Se si volesse veramente la “parità” tra uomini e donne, non ci si potrebbe sottrarre a queste domande. Bisognerebbe indagare il declino dei ragazzi nelle famiglie più povere, gli effetti dell’evoluzione del lavoro da attività muscolare ad attività intellettuale, il riconoscimento della vulnerabilità delle industrie in recessione – a prevalenza maschile – manifatturiera e delle costruzioni, il declino dell’attenzione vocazionale nelle scuole superiori, che dà una minore sensazione di produttività e competenza ai ragazzi, oltre a fornire agli stessi un minore orientamento formativo (soprattutto in ragioni degli elementi anzidetti).
Volgendo poi lo sguardo verso la produzione mediatica, abbiamo serie TV che sempre più ritraggono uomini sopravvalutati e donne sottovalutate o uomini come serial killer e traditori (Breaking Bad, Homeland, Dexter). Abbiamo poi la VGA, Video Game Addiction (dipendenza da videogiochi): i nostri figli sono molto più inclini alla dipendenza da videogames, in una dinamica che assimila e produce la stimolazione della dopamina quando “si vince” in un mondo virtuale, incrementando il blocco della motivazione nel tentate di vincere nel mondo reale. Sul fronte della relazioni abbiamo una spinta per quanto riguarda l’esibizione e la capitalizzazione del potere erotico da parte del femminile, un incoraggiamento (per le donne) verso le relazioni senza impegno (ma non un incoraggiamento a prendere l’iniziativa dell’approccio o ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni); a fronte di questo vengono emanate di continuo nuove norme “contro le aggressioni sessuali”, ma pensando solamente alle esperienze delle donne. Cosa abbiamo sul versante maschile, oltre a quanto già detto? Aumento del consumo di pornografia, sesso virtuale (spesso a pagamento, in un contesto in cui vi sono giovani donne che ostentano di guadagnare fino a 10.000 euro al giorno semplicemente vendendo le proprio foto), isolamento sociale (e non è che morire in un cantiere o lavorare 10 ore al giorno sia molto meglio). Del resto, sul divario di valore sessuale tra uomini e donne, basti una volta per tutte lo studio della dottoressa Catherine Hakim.
Giovani uomini inclini a fare i padri.
Il legislatore cosa ha fatto di fronte a tutto questo? Ha istituito centinaia di programmi e iniziative volte solamente a favorire le donne, incentrate sui “problemi delle donne”, istanze che, insieme a quelle delle persone omosessuali, sono le uniche prese in considerazione per quanto riguarda i diritti civili (i movimentismo femminista e quello LGBT sono gli unici accreditati). Sempre sul versante delle relazioni e del modo di essere uomini e donne, i corsi universitari negli studi di genere (e tutto ciò che gira intorno al discorso sulle relazioni) non trasmettono alle nuove generazioni l’importanza di amarsi e rispettarsi reciprocamente, ma “insegnano” a vedere e giudicare gli uomini come oppressori. Questa è la prospettiva di ogni narrazione accademica e istituzionale sulle tematiche relazionali: gli uomini sono violenti e oppressori, le donne oppresse, marginalizzate per millenni e discriminate tutt’ora. Se su Google viene digitato “uomini idioti” abbiamo risultati come “la scienza dice che gli uomini sono più idioti”; se effettuiamo questa ricerca scrivendo “donne idiote”, spunta “L’idiota” di Dostoevskij. Non parliamo poi dell’immagine dei padri o degli uomini in generale nelle commedie… Questo elenco potrebbe continuare per molte pagine (non abbiamo neanche sfiorato il tema delle separazioni, dell’affido dei figli, delle modalità della narrazione sulla violenze domestica e nelle relazioni), ma ormai è stato scritto talmente tanto che chi vuole ha tutti gli strumenti per approfondire.
Come possono evolversi le relazioni tra uomini e donne, se il quadro è questo? Seguendo le tendenze attuali, giusto per fare un esempio, miliardi di ragazzi nel mondo industrializzato saranno alla deriva con un senso di apatica assenza di scopo, depressione e distruttività, trovandosi sempre più incapaci di lasciare i propri genitori. Il divario tra ricchi e poveri aumenterà e verrà cavalcato dalle condotte femminili, visto che la narrazione dominante le descrive come vittime e mai come soggetto che in realtà vanta una serie enorme di privilegi e benefici. La percentuale di donne che hanno figli senza essere sposate supererà il 60%, le giovani donne sentiranno sempre più di dover scegliere tra una vita di solitudine e la vita con un “fallito”. In tutto il mondo infatti, miliardi di nostri figli guadagneranno meno delle nostre figlie. Se una donna che desidera essere mamma non considera un giovane uomo che guadagna meno come “materiale da matrimonio”, allora sempre più donne avranno figli al di fuori del matrimonio e a cui non verrà dato un padre. Questa dinamica potrebbe cambiare (se veramente si volesse la parità, ma su questo torneremo in seguito) solamente se genitori e insegnanti aiutassero le nostre figlie ad apprezzare i giovani uomini che sono più inclini a far crescere figli piuttosto che far crescere denaro, valutandoli quindi come compagni di vita e padri.
I ceti popolari come razzisti, misogini, omofobi, sovranisti, e così via…
A questo proposito si può aggiungere che nelle famiglie ben istruite di madri single o che in ogni caso monopolizzano l’educazione dei figli (un fenomeno diffuso nelle società occidentali), il materiale di protezione spesso catalizza nei ragazzi una propensione alla sensibilità, ma non la volontà ad avere successo. Molti di questi giovani uomini hanno maggiori attitudine all’ascolto e la cura piuttosto che alla competizione sfrenata. Ma la società e le donne, come guardano questi uomini? Lo abbiamo già detto: come dei perdenti. Eppure potremmo prepararli a diventare padri, facendogli vedere in questo un nuovo senso per la propria vita: in passato, le carriere degli uomini duravano tutta la vita e questa stessa prospettiva di lungo termine forniva una scopo per la propria stessa esistenza. Nel futuro le carriere raramente dureranno per tutto l’arco della loro vita; a fornirgli uno scopo per la loro esistenza potrebbe essere la preparazione ad essere padri. Padri lo sono e lo resteranno per una vita intera. Una volta svelato l’inganno orwelliano contenuto nei testi di iniziative legislative e politiche come quella da cui abbiamo preso le mosse, è possibile indagare le ragioni per cui vengono poste in essere.
Riprendendo una tesi sostenuta (tra gli altri) da Marino Badiale si può sostenere che a fronte dell’incapacità da parte degli attuali ceti dominanti nel governare le gravissime crisi economiche e sociali che con sempre più frequenza si presentano, l’unica carta da giocarsi per cercare di mantenere la propria egemonia sociale e politica sia quella di forzare le strategie di legittimazione ideologica. Nella fattispecie, «la mossa ideologica fondamentale dei ceti dominanti, sostenuti dall’intero apparato della cultura e dei mass media, è quella di screditare i ceti popolari come moralmente inferiori e di accreditare se stessi come moralmente superiori. Il politicamente corretto, e in particolare il femminismo, sono una componente fondamentale di questa strategia. I ceti dominanti rappresentano se stessi come coloro che difendono valori moralmente superiori, appunto la liberazione femminile, i diritti LBGT, e in generale le istanze “politicamente corrette”, e rappresentano i ceti popolari, quando da questi ultimi emerge la protesta, come esseri moralmente inferiori: razzisti, misogini, omofobi, nazionalisti e così via, tutte caratteristiche spesso sintetizzate nel termine “fascista”. In questo modo il dominio viene rappresentato come moralmente necessario: c’è bisogno di noi, dicono in sostanza i ceti dominanti, per portare avanti le nobili cause sopra indicate, che l’orrido popolo farebbe arretrare.
Nemici del genere umano.
Questa strategia di legittimazione ideologica può certo portare a qualche vantaggio per i ceti dominanti, nel breve periodo. Si tratta però di una impostazione che stravolge la realtà e rende ancora più difficile affrontare i problemi che la nostra società ha di fronte. I ceti popolari, infatti, non sono né fascisti né antifascisti, né misogini né femministi, né omofobi né filo-LBGT: semplicemente, i ceti popolari hanno altri problemi, e chiedono a gran voce, quando protestano, che tali problemi vengano affrontati. La delegittimazione che li colpisce non fa che esacerbare la loro rabbia, e rendere più difficile la ricerca di un compromesso, che sarebbe l’unica strada sensata da percorrere. Il problema, come abbiamo già detto, è che i ceti dominanti non hanno nessun compromesso da offrire, e la loro strategia di autolegittimazione ideologica, sopra delineata, serve solo a guadagnare tempo. Ma il tempo guadagnato per il dominio è tempo perso per l’umanità, per la ricerca e l’organizzazione di strategie che possano alleviare i drammi che dovremo affrontare. È tempo che ci avvicina sempre di più al crollo di questa civiltà, con tutte le sofferenze e gli orrori che questo comporterà. Visti da questa prospettiva, gli attuali ceti dominanti possono quindi essere tranquillamente definiti come nemici del genere umano. È triste dover ammettere che il femminismo, nato per combattere una situazione di minorità della donna che andava a detrimento della dignità dell’essere umano, sia diventato una mera articolazione delle strategie di legittimazione dei nemici del genere umano. Ma questa è la realtà».