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Paola Di Nicola è un giudice penale (dibattimentale e poi GIP) presso il Tribunale di Roma e da luglio 2020 è consulente giuridica presso la nota “Commissione sul femminicidio”. Basterebbero questi due elementi assieme per mettere in guardia chiunque di sesso maschile, accusato (ancor più se falsamente) di qualche reato “di genere”, se la ritrovasse come magistrato nella Capitale, e per avere materia di immediata ricusazione a fronte del fondato motivo di dubitare della sua imparzialità. Non solo e non tanto perché consulente giuridica della “Commissione femminicidio”, bensì per ciò che ha messo nero su bianco, il 20 luglio scorso, in un articolo pubblicato dal sito “Questione giustizia”, organo d’informazione della corrente di sinistra dei magistrati, la nota “Magistratura democratica”. «La Corte EDU alla ricerca dell’imparzialità dei giudici davanti alla vittima “imperfetta”» è il titolo del suo contributo, che va letto con estrema attenzione perché contiene davvero tutta l’eversione con cui il femminismo mira a cancellare lo Stato di Diritto.
Varrebbe la pena analizzarlo pezzo per pezzo, ma sono tredici pagine di delirio assoluto e questo ci comporterebbe un articolo interminabile. Dateci un’occhiata, ve lo alleghiamo con i nostri commenti (visibili leggendo il file con Acrobat Reader), ma prima prendete un calmante, poi un anti-emetico, poi leggete un libro di storia e un altro sulle radici e i capisaldi del diritto. Serve tutto questo per affrontare un testo che, in sostanza, asserisce la sistematica vittimizzazione femminile nei tribunali, e la corrispettiva indulgenza verso gli uomini, nei casi di violenza, specialmente di stupro, come conseguenza di una cultura derivata nientemeno che dal Deuteronomio (libro biblico elaborato nel VI secolo avanti Cristo…) e dall’Ars Amatoria di Ovidio (elaborato nel 1° secolo avanti Cristo…). È quasi un peccato che i Neanderthal non scrivessero, sennò avrebbe trovato anche lì origini culturali delle condotte odierne. Non solo, tra le sue fonti cita nientemeno che il GREVIO, Amnesty International, la scrittrice Alba de Céspedes e capisaldi della cultura contemporanea come il blog “Abbatto i muri”. Una delle apoteosi di questa giuresperita è però quando dice che le donne vittime di stupro reagiscono con la “tanatosi”, quella strategia di difesa (che lei attribuisce a «tutti i mammiferi» e che invece è adottata solo da alcuni animali) che consiste nel fingersi morti.
Un mucchio di letame argomentativo.
Tutto questo ben di Dio per dire cosa? Primo, che i giudici non sono immuni dai pregiudizi e dagli stereotipi che riconoscono uno status di potere agli uomini e di soggezione alle donne. I giudizi, nei casi di stupro, sono inquinati da questi stereotipi, secondo la Di Nicola: è inscritta nel nostro DNA, compreso in quello dei giudici, l’idea che l’uomo sia una bestia incapace di trattenersi se sessualmente provocato e che la donna approfitti del proprio appeal per fare dell’uomo ciò che vuole. Solo che, se quest’ultima tira troppo la corda, finisce che l’uomo se la prende con la forza. Effettivamente nel VI o I secolo a.C. poteva capitare che le cose talora andassero così, ma la Di Nicola sostiene che secoli e secoli di evoluzione non abbiano intaccato quest’idea, a cui i magistrati si conformano, trattando sempre con indulgenza gli uomini e ignorando la violenza subita dalle donne. Anzi spesso sottoponendole a ulteriori pene (la “vittimizzazione secondaria”). Questo meccanismo scatterebbe perché i giudici hanno un’idea codificata di “vittima” di stupro, una specie di idealtipo che la Di Nicola chiama “vittima perfetta”. In sostanza: i giudici sono propensi a riconoscere una donna vittima di stupro solo se si tratta di una brava ragazza, di costumi morigerati e abbigliamento castigato, e se l’autore è estraneo alla sua cerchia e magari è straniero. La condotta di una persona, precedente e successiva al crimine, che si tratti della vittima o dell’autore, per la Di Nicola non conta nulla, non va a comporre il quadro necessario a definire l’accaduto, a garantire sia la vittima che soprattutto l’accusato, come richiede il nostro ordinamento. No, è tutta roba inutile. Per lo meno nel caso di donna vittima, specie se di stupro. Che va creduta e basta, a prescindere. Infatti così accade, in realtà, ma la Di Nicola finge di non saperlo.
Disegna con rara abilità, la Di Nicola, tutto il tessuto del suo ragionamento, infarcendolo di falsi storici (casualmente proprio quelli che abbiamo smentito di recente, tipo “le donne non potevano studiare” e fanfaluche simili) e anche di falsi tout-court, innumerevoli: quando piagnucola che le donne non sono state ammesse in magistratura fino al 1963, dimenticando che gli uomini, per parte loro, non sono stati ammessi alla professione infermieristica fino a metà degli anni ’70 (ce n’è per tutti, quindi…); quando cita il “femminicidio”, lei che fa parte di una Commissione incapace finora di dare del fenomeno una definizione stabile; quando per ben due volte dice che il 93% delle donne non denuncia gli stupri subiti, senza però menzionare uno straccio di fonte (il che è grave per un magistrato); quando se la prende con la prostituzione, invalidando improvvisamente il principio per cui my body my choice, ultravalido invece in tema di aborto; quando cita il caso di una 91enne stuprata da un 19enne, omettendo di dire come quest’ultimo fosse straniero (ma guarda un po’ questi stereotipi…). In sostanza un mucchio di letame argomentativo degno di un invasato, ben coperto da suggestioni emozionali (la donna stuprata ha «un volto, ha un’età, ha un sogno da rincorrere, ha una rabbia da far esplodere…»; invece l’uomo falsamente accusato o il padre alienato no, quelli sono automi di scarsa importanza).
Ne pagheranno il prezzo tutti: uomini e donne.
Questa discarica ideologica espressa dalla Di Nicola prende le mosse dalla sentenza della CEDU che ha condannato i toni e le parole con cui alcuni giudici avrebbero trattato un caso di stupro di gruppo, terminato con l’assoluzione degli accusati (ne abbiamo parlato qui). Questo consente all’autrice di disegnare un modello di uomo e di donna che non esiste nei fatti. Esiste solo nelle proiezioni e nei desideri di chi ha il cranio inquinato (e il portafogli pieno) dall’ideologia femminista. In realtà la Di Nicola, come tutte quelle come lei, desiderebbero ardentemente che gli uomini e le donne fossero come nelle loro descrizioni. Invece no. Si sono entrambi evoluti da quelli del tempo del Deuteronomio, concordemente con l’ambiente sociale. Le cose si sono fatte complesse per tutti e determinati stereotipi, che così tanto ribrezzo suscitano in queste paranoiche portatrici d’interesse vittimistico, pur rimanendo veri, sono stati calmierati dalla civilizzazione complessiva. L’uomo rimane uomo, la donna rimane donna, ognuno con le proprie migliori caratteristiche e i peggiori difetti, attrezzati per affrontare un mondo che, quello no, non è cambiato: è competitivo e gerarchico. Lo era ai tempi del Deuteronomio come lo è, sebbene in forma diversa, ora. Ed è la negazione di questo fatto scomodo ma incontrovertibile che spinge le varie Di Nicola a dire e scrivere le follie che dicono e scrivono.
Con quale risultato? L’aberrazione. Ossia l’affermazione, gravissima da parte di un giudice, che i colleghi magistrati (uomini e donne), nel perseguimento dell’imparzialità e nell’applicazione dei fondamentali brocardi del diritto, sono tutti degli imbecilli imbevuti del “mito dello stupro”. O ancora l’esaltazione del fatto che esistano strumenti internazionali di parte e sentenze internazionali che passivamente vi si conformano, delineando (finalmente) «i diritti del solo genere femminile». Un magistrato degno di questo nome dovrebbe aborrire anche solo concettualmente l’idea di attribuire diritti a una categoria specifica di soggetti. La Di Nicola non la aborrisce, anzi la celebra, con disinvoltura, dopo aver prodotto uno dei documenti più densi di odio antimaschile, di falsificazione storica, di inquinamento culturale e di eversione giuridica mai letti negli ultimi tempi. In un paese normale un magistrato del genere verrebbe immediatamente richiamato dal CSM e le verrebbe bruciata la toga sotto gli occhi. Nell’Italia di oggi, che un paese normale assolutamente non è, invece fa la consulente di una Commissione parlamentare ampiamente certificata come inutile e siede presso uno dei più importanti tribunali del Paese, quello penale della Capitale. A riprova che il cancro della follia femminista ha già ampiamente messo piede in magistratura. E ne pagheranno il prezzo tutti: uomini e donne.