Venerdì scorso, Renato Scapusi, 59 anni, è entrato nel negozio della 71enne Clara Ceccarelli, in via Colombo, a Genova. Sembra che abbiano avuto una discussione, al termine della quale lui ha sfoderato un coltello con cui l’ha uccisa. Ancora sporco di sangue, è fuggito, inseguito da alcuni passanti. Poco dopo è stato trovato dalla Polizia in un’altra zona della città dove sembrava volesse tentare il suicidio. Ora è in arresto, in carcere per omicidio volontario e il PM sta valutando se contestare anche la premeditazione. Renato e Clara avevano avuto una relazione, terminata un anno fa. Le cronache dicono che lui non fosse riuscito a farsene una ragione e che la tormentasse in ogni modo, arrivando a vandalizzarle anche le vetrine del negozio. La donna raccontava ai conoscenti di questa persecuzione, ma curiosamente non aveva mai sporto denuncia: l’accusa per atti persecutori sarebbe stata più che opportuna, Clara avrebbe potuto trovare aiuto in un’amplissima rete di protezione, Scapusi avrebbe passato l’anima dei guai e probabilmente si sarebbe messo il cuore in pace. Difficile che Clara non sapesse quanti strumenti aveva a disposizione per tutelarsi, eppure stranamente non ha fatto nulla, se non, qualche giorno prima del fattaccio, pagare anticipatamente il proprio funerale, quasi un terribile presagio.
Naturalmente la questione è finita subito rubricata come “femminicidio”. Potremmo, come capita di frequente, andare a discutere questa classificazione, sottolineando ciò che soltanto alcuni media, a caldo, hanno messo in luce, e poi subito nascosto: Scapusi era un disoccupato, mezzo sbandato, affetto da ludopatia. Più volte Clara si era lamentata con i conoscenti di quell’uomo che non faceva che chiederle e spillarle soldi, e a tutti gli effetti così può anche spiegarsi la stranezza di una relazione tra un uomo e una donna di dieci anni più anziana. È piuttosto evidente che a legare lo Scapusi a Clara non era tanto un afflato sentimentale, quanto la necessità di avere una “preda” facile da parassitare per alimentare la propria vita dissoluta. Ciò basterebbe a rimuovere la classificazione di “femminicidio”, non essendoci nulla di “passionale” nel suo gesto omicida, ma non ci interessa in questa fase fare le pulci ai casi (dedicheremo a questo una serie più ampia di articoli lungo la settimana, grazie al nostro Fabio Nestola). Ci interessa più di tutto registrare le reazioni che il terribile fatto di cronaca ha innescato. Il giorno dopo, infatti, una ventina di attiviste genovesi di “Non Una di Meno” si sono assembrate (a loro è consentito…) davanti al negozio di Clara inscenando una protesta che ha attirato una piccola folla di curiosi.
Certe morti valgono di più, altre meno, altre ancora non valgono nulla.
Esistono diversi video in rete che testimoniano il presidio di “Non Una di Meno”. In essi si vede che davanti alla bottega dell’uccisa si sono scanditi gli slogan tradizionali, derivati dall’esperienza americana e soprattutto spagnola, e leader più o meno improvvisate, armate di megafono, hanno rivendicato un po’ di tutto: reddito, servizi sociali, assistenza, rispetto. «Ci tengono chiuse in casa!», strilla una di loro mentre passeggia avanti e indietro all’aria aperta senza alcuna limitazione, o ancora «ci uccidono», «ci massacrano». Ma chi sono quelli che, secondo le NUDM, commettono queste brutture? Gli uomini, è ovvio. Tutti, indistintamente. Ed ecco che il meccanismo ideologico infame diventa spettacolo di strada: un evento delittuoso, un fatto di cronaca tra i tanti, diventa il pretesto per una rivendicazione a 360 gradi, per una vittimizzazione generalizzata della sfera femminile e una criminalizzazione di tutto il genere maschile. Non solo: perché proprio quel tipo di fatti di cronaca? Di tragedie ne capitano di continuo, tutti i giorni, con autori uomini e donne e vittime uomini e donne. Ci sono diverse stragi silenziose nel nostro paese: i morti per infezione post ricovero, segno di scarsa igiene nei nostri nosocomi, i morti per incidente domestico, per incidente stradale, per suicidio, sul posto di lavoro, tutte fattispecie che fanno vittime a tre zeri, metà delle quali per altro sono donne. Eppure nessuna di queste stragi merita un presidio, una manifestazione o un sit-in.
Ecco dunque che, più che andare a discutere il singolo caso di cronaca dove un uomo uccide una donna per (presunti) motivi passionali, casistica che in Italia capita in media una quarantina di volte all’anno, è forse più opportuno porsi delle domande. Anzi porle direttamente alle attiviste di “Non Una di Meno” e dintorni. L’abbiamo fatto nel video che abbiamo postato qua sopra, dove chiediamo alle donne e agli uomini del presidio dove fossero quando altre persone (uomini e donne) morivano anzitempo, in circostanze ugualmente tragiche e assai più frequenti di quella che ha tolto la vita a Clara Ceccarelli. E a corollario di una serie di «dove eravate?», che è un aperto atto d’accusa per un’assenza oggettivamente più che colpevole, poniamo quella che è forse la domanda cruciale: «perché affermate che certe morti siano più gravi, più importanti, più speciali di altre?». Lo chiediamo perché proprio lì sta il nocciolo della questione. Presidi come quello di Genova solo apparentemente esprimono solidarietà verso la vittima e i suoi familiari. Più nel profondo hanno un messaggio assai più pesante che, come tale, andrebbe spiegato e giustificato razionalmente: certe morti contano di più di altre. Solo così si spiega il fatto che esse inneschino manifestazioni di piazza, mentre altre passano nella più totale indifferenza. Noi sappiamo bene quale sarebbero le risposte di “Non Una di Meno” e della galassia femminista alle nostre domande e sono risposte per noi del tutto irricevibili. Crediamo però sia arrivato il momento che costoro guardino in faccia l’opinione pubblica e le piccole folle che attirano le loro carnevalate di piazza e ad esse espongano con chiarezza il loro principio discriminante di base: certe morti valgono di più, altre meno, altre ancora non valgono nulla. Crediamo che dovrebbero farlo naturalmente spiegandone in modo razionale e convincente il perché.