Quando un film diventa un pamphlet propagandistico? È un fatto incontrovertibile che il film C’è ancora domani della regista Paola Cortellesi abbia avuto un certo successo, vincendo numerosi premi in Italia e all’estero. Molti hanno visto in questa opera un prodotto di propaganda anti uomo e anti famiglia, argomento già trattato in un altro intervento. Il film racconta il quotidiano di una famiglia disturbata e disfunzionale, dipinge un quadro di vita regolare delle donne, delle madri, delle mogli, spacciato come rappresentativo del dopoguerra, un perpetuo sacrificio prostrante e intimamente degradante. La protagonista, lavoratrice sottopagata, s’arrabatta raccogliendo spicci da questo e quel lavoro. Le occhiaie della madre strenuamente affaccendata, della moglie schiacciata, pestata, battuta, messa a tacere, umiliata e punita quasi come fosse dovere morale dell’uomo. Naturalmente l’immagine riflessa che trapela dagli uomini è esecrabile, delle mezze bestie senza ritegno. Il vecchio suocero pare il male assoluto. Il film, interamente girato in bianco e nero, sembra voler ricreare, senza riuscirci, l’atmosfera dei film neorealisti, e nell’aspetto la Cortellesi cerca di imitare Anna Magnani. Una rivisitazione del neorealismo in realtà poco realistica, difficile reggere il confronto tra il tipo di uomo che affiora da un capolavoro del Neorealismo, Ladri di biciclette, fotografia contemporanea, fedele e autentica della realtà dell’epoca, e il tipo di uomo che affiora ora dal film della Cortellesi, surrogato imperfetto di uomo di un’epoca mai vissuta né conosciuta e frutto dell’immaginazione.
Al di là di qualche manchevolezza della sceneggiatura – dalla bomba messa nel bar dal soldato americano, che non sa una parola di italiano ma che si presta, non si sa bene perché, a questa azione assurda di stampo chiaramente mafioso; alla critica alla protagonista nel dialogo che avviene tra suocero e marito, dove ella viene descritta come «una che risponde e parla troppo», quando in realtà lei piglia sganascioni per tutto il film senza dire una parola –, il punto focale del film è l’improbabile antagonismo creatosi tra lo spregevole universo maschile e il sofferto universo femminile. È vero che possono esistere realtà familiari segnate dalla violenza di un padre padrone, come è anche vero che questa violenza possa essere trasmessa dal padre al figlio – nel film dal suocero al figlio e marito. Quello che risulta meno credibile è che questa trasmissione segua una rigida linea sessuata, cioè gli (antipatici) figli maschi prendono dal padre mentre la figlia, a quanto pare, prende soltanto dalla madre. In altre parole, in una famiglia violenta e disfunzionale, la violenza e la disfunzione riguardano spesso tutti i membri familiari. Eppure, nel film non c’è alcun accenno alla violenza infantile, all’epoca sistemica e molto diffusa, per mano della madre a danno dei figli. Nessuna violenza degna di nota nemmeno da parte della sorella più grande nei confronti degli insopportabili fratelli più piccoli. La violenza e la sgradevolezza viaggiano su un unico binario: quello maschile.
Belfast, un film molto più realistico.
Vorrei supportare la mia critica al film con due argomenti diversi. Il primo tramite un semplice confronto. Di recente ho visto il film Belfast (2021) che, come il film della Cortellesi, ha avuto un discreto successo, candidato agli Oscar per il miglior film. Subito dopo la visione mi è venuto in mente C’è ancora domani. Entrambi i film presentano alcune analogie. Innanzitutto la scelta non comune dei registi di girare entrambi i film interamente in bianco e nero. Inoltre entrambi i film raccontano le vicende di una famiglia durante un periodo storico precario e difficile, il film italiano ambientato nel dopoguerra, quello britannico ambientato nel 1969 a Belfast allo scoppio del conflitto nordirlandese. Qui però finiscono le analogie. Da una situazione simile, precaria e difficile, i registi delineano comportamenti e relazioni familiari completamente diversi. Malgrado le enormi difficoltà – non c’è lavoro e il padre per lavorare si deve spostare in Inghilterra per lunghi periodi; inoltre diventa sempre più difficile sfuggire al conflitto e alle esplosioni di violenza che scaturiscono per la strada tra le due comunità –, trapela in Belfast un messaggio di speranza e di collaborazione da parte di tutti. Il dolore viene filtrato da una famiglia amorevole, in una strada in cui tutti si comportano da genitori a prescindere. La coppia di nonni è virtuosa, l’affetto e l’amore tra loro prevale, malgrado il tempo trascorso e le difficoltà. La relazione del bambino protagonista con i nonni è molto positiva – nel film della Cortellesi l’unico sentimento che trapela tra i nipoti e il nonno è quello dell’indifferenza, quando non di disprezzo.
Malgrado le discussioni e le idee contrastanti su dove andare a vivere e come vivere, anche l’amore tra i genitori prevale. Il marito apprezza – e lo esplicita – il ruolo svolto dalla donna, in quanto moglie e in quanto madre, e lei fa altrettanto. Anche l’amore che trionfa tra il ragazzino e una ragazzina compagna di classe è un messaggio di speranza in una società violenta e difficile. In Belfast l’amore, la collaborazione e la speranza prevalgono, ma ciò non vuole dire che siamo di fronte a una fiaba. Nel film compaiono pure comportamenti violenti e disfunzionali, tanto da parte degli uomini come – e questo è l’aspetto discriminante tra i due film – da parte delle donne. Durante una discussione, la moglie lancia oggetti ed esercita violenza sul marito, che incassa stoicamente. A testimoniare quanto le donne possano esercitare un ruolo attivo, anche in negativo, sulla vita degli altri, c’è l’amica più grande del piccolo protagonista, che lo guida sulla strada della perdizione. Primo lo incoraggia (lo condiziona) a rubare, dopo lo costringe di forza, contro la sua volontà, a partecipare a degli assalti violenti su negozi. A tirarlo fuori da quella strada un’altra donna: la madre. Quindi, responsabilità delle donne, tanto in positivo quanto in negativo. Sono questi comportamenti femminili, violenti e disfunzionali, inesistenti nel film della Cortellesi, che rendono C’è ancora domani un pamphlet propagandistico assoggettato all’ideologia, e Belfast un film molto più realistico.
La mistificazione sulle elezioni.
C’è però un altro elemento che rende, in maniera ancora più evidente, C’è ancora domani un pamphlet propagandistico. Il film vorrebbe denunciare la violenza sulle donne e lo fa egregiamente fino quasi alla fine del film, finché non si arriva a un finale incomprensibile e demenziale che sostituisce l’argomento della violenza sulle donne per quello del diritto al voto femminile. In un crescendo di immagini eroiche, di musica, di contrasto immobile e pacifico sulle scale tra chi vota e l’uomo violento (il marito), il voto femminile vince la violenza maschile! In altre parole, il Patriarcato vinto dal diritto di voto alle donne, una bella favoletta. Ecco il testo finale del film, da dove è completamente sparito l’argomento della violenza sulle donne (!?): «Domenica 2 e lunedì 3 giugno 1946 in Italia, si tennero le prime elezioni politiche con diritto di voto alle donne»; «L’89% di loro corse alle urne»; «Su 25 milioni di elettori, 13 milioni furono donne»; «“Stringiamo le schede come biglietti d’amore” Anna Garofalo». Un finale imbarazzante e assurdo. Prima di tutto, il film spaccia per un segreto da tener nascosto ciò che era noto a tutti: tutti ricevevano le schede elettorali per posta, anche gli uomini! Dunque il marito aveva ricevuto la sua e non era un mistero che anche la moglie lo avrebbe fatto. L’amplissima affluenza delle donne alle urne, dato che lo stesso film fornisce, smentisce quindi una delle congetture del film su cui è basata la trama: l’opposizione dei mariti o del mondo maschile al voto delle donne. La stragrande maggioranza delle donne, per non dire tutte, sono andate a votare senza che ci fosse alcuna opposizione maschile. Secondo, il voto alle donne è stato un momento cruciale della storia d’Italia, è vero, ma lo è stato anche per gli uomini, che votavano per la seconda volta! (elezioni politiche novembre 1919, suffragio universale maschile per la prima volta).
Terzo, il dato fornito dell’affluenza femminile alle urne è semplicemente un falso. Nella giornata del 2 giugno e la mattina del 3 giugno 1946, al referendum per scegliere fra monarchia o repubblica, «i votanti furono 24 946 878, pari circa all’89,08% degli aventi diritto al voto, che risultavano essere 28 005 449; […] le donne votarono con un’affluenza pari circa all’82%». L’affluenza totale è spacciata nel film come l’affluenza femminile (!?). Per ottenere un’affluenza totale del 89% vuol dire che gli uomini si sono recati alle urne in una percentuale di gran lunga superiore, tenuto conto anche che i votanti maschi erano in numeri assoluti molti di meno. Come è possibile che a nessuno sia venuto in mente di controllare i dati pubblicizzati da un film pluripremiato, recensito positivamente dai principali mezzi stampa e media nazionali e internazionali e adoperato nelle scuole come formativo? A me sono bastati cinque minuti per accorgermi che il dato era “falso”. Perché, diciamoci la verità, qui non siamo in presenza di un imbarazzante e sfortunato errore involontario, qui c’è intenzionalità. Sostituendo il dato reale per uno ancora più vistoso si vuole accentuare nel pubblico una reazione emotiva ancora più marcata di simpatia nei confronti delle donne e di irritazione nei confronti degli uomini – allo stesso modo non bastano i dati reali della violenza sulle donne, devono essere sistematicamente gonfiati per creare ancora più allarmismo.
Un insulto agli uomini caduti o prigionieri.
Quarto, perché su 25 milioni di votanti (il film fa confusione tra “elettore”, chi ha diritto al voto, e “votante”, chi effettivamente vota), le donne furono 13 milioni e gli uomini “solo” 12? Ha scritto Tina Anselmi, che nel 1976 divenne la prima ministra donna d’Italia, «le italiane, fin dalle prime elezioni, parteciparono in numero maggiore degli uomini, spazzando via le tante paure di chi temeva che fosse rischioso dare a noi il diritto di voto perché non eravamo sufficientemente emancipate». Parteciparono le donne effettivamente in numero maggiore? Questo è vero in numeri assoluti, ma in percentuale è completamente falso. I dati sono questi: 24.946.000 votanti (12.998.131 donne, 11.949.056 di uomini) di 28.005.449 elettori, cioè di circa 15.800.000 donne (affluenza 82% circa) e 12.215.000 uomini (oltre 97% d’affluenza). In percentuale gli uomini si recarono molto più numerosi alle urne. Come mai ci sono 3 milioni di elettori maschi di meno rispetto alle femmine? La risposta è semplice: la mancanza è dovuta principalmente alle guerre, alla Prima (1915-1918) e alla Seconda appena finita, e in minor misura a guerre minori, come la campagna di Libia (1913-1921), la guerra di Abissinia (1935-1936) o la guerra civile spagnola (1936-1939). Inoltre, i militari prigionieri di guerra nei campi degli alleati e gli internati in Germania furono esclusi e non poterono recarsi alle urne.
Di fronte a un sacrificio maschile, dal quale le donne avevano tratto in gran misura un vantaggio, il film snobba la tragedia umana maschile appena conclusa, come era stata la Seconda guerra mondiale, e la usa come un arma per rivendicare i diritti delle donne – marito violento che si vanta di aver combattuto la guerra – in una lavata di testa finale che mira a riscrivere la Storia, a manipolare, anche tramite dei dati falsi, la memoria storica, ingenerando negli uomini una colpa collettiva invece di gratitudine per l’enorme sacrificio appena speso. Ecco il testo come avrebbe dovuto essere redatto: «Domenica 2 e lunedì 3 giugno 1946 in Italia, si tennero le prime elezioni politiche con diritto di voto per la prima volta alle donne e per la seconda volta agli uomini»; «L’89% dei votanti corse alle urne, circa l’82% delle donne e il 97% degli uomini»; «Su 25 milioni di elettori, 13 milioni furono donne e “solo” 12 uomini perché milioni di elettori maschi erano deceduti in guerre o prigionieri»; «“Stringiamo le schede come biglietti d’amore” Anna Garofalo, e gli uomini percentualmente le strinsero di più». Qualche differenza? C’è ancora Belfast.