Oggi, come ogni anno, è un giorno importante: siamo in attesa dell’uscita del “Dossier sui reati in Italia” che il Viminale diffonde ogni Ferragosto e che riporta i dati raccolti dalla Polizia di Stato sui vari crimini commessi in Italia nell’ultimo semestre dell’anno scorso e nel primo semestre di quest’anno. Resta come sempre incomprensibile la ratio di una periodicità che abbraccia due metà anno, invece di un anno solare intero, ma rivestono comunque grande interesse le tre paginette che il dossier dedicherà agli omicidi di donne, ai reati in genere contro le donne e ai reati legati alla discriminazione. Attendiamo di leggerlo, prima di commentarlo, ma possiamo già prevedere che il tutto sarà impostato non diversamente dagli anni precedenti: alla confusione della periodicità “6 + 6” si unirà la confusione definitoria, con il solo scopo di sostenere una delle tante emergenze plastificate che, stando alla comunicazione narrativa di massa, affliggono il nostro paese. Quest’anno, poi, il Dossier arriva in un momento davvero importante: un momento in cui la cronaca e la relativa reazione mediatica svelano anche a chi è stato molto distratto negli ultimi anni quanto e come il “femminicidio” sia un mero strumento propagandistico.
Mara Fait, Iris Setti, Sofia Castelli e Celine Frei Matzhol. Dobbiamo a queste quattro povere donne, uccise da altrettanti uomini nelle ultime quattro settimane (curiosamente tre di esse in Trentino Alto-Adige), il disvelamento di ciò che per noi era chiaro già da anni. Per nessuna di loro, infatti, si sono spese prime pagine o servizi TV, né ci sono stati sit-in di protesta dei movimenti in difesa delle donne, né politici o opinionisti pronti a stracciarsi le vesti a reti unificate gridando nell’amplificatore mediatico all’ennesimo femminicidio o al fatto che in Italia avvenga un “femminicidio” ogni tre giorni, e quindi servano leggi più restrittive e severe contro gli uomini italiani, oltre che naturalmente percorsi di severa rieducazione tipo “cura Ludovico” e corsi d’addestramento all’affettività da tenersi fin dall’asilo ad opera di insegnanti queer. Niente di tutto questo, nessun capitolo urlato della narrativa mediatica per quelle quattro donne. “La Repubblica”, ad esempio, tanto solerte nel tenere il conteggio (già da noi più volte dimostrato farlocco) dei “femminicidi”, dà la notizia dell’omicidio di Celine Frei Matzhol con un articoletto a pagina 24, mentre “La Stampa” non ne parla proprio. Come mai?
I dati ISTAT.
A uccidere le quattro donne sono stati altrettanti uomini di nazionalità non italiana. Ecco perché. As simple as that, come si dice oltre Manica. Ilir Zyba Shehi, albanese; Chukwuka Nweke, nigeriano; Zakaria Aqaoui, marocchino; Omer Cim, turco. Questi sono, rispettivamente i nomi e le nazionalità degli assassini delle quattro donne ed è stata la loro nazionalità essenzialmente a garantire alle quattro vittime l’oblio mediatico, nel caso di Iris Setti addirittura una specie di vittimizzazione secondaria, con il corpo inquirente colto quasi a giustificare l’assassino. Ovvio che, nel momento in cui sul fenomeno omicidiario si innesta la questione immigrazione, salta tutto il banco della discussione e della riflessione: l’istinto, ben alimentato dai vergognosi media del nostro paese, tende subito alla polarizzazione e alla stigmatizzazione. Frecce con la facile etichetta di “misogino”, “maschilista” e “razzista” sono già in cocca, pronte a colpire al cuore chiunque provi a svolgere una riflessione sensata sul tema. Sono frecce che noi conosciamo, ormai assomigliamo a una sorta di San Sebastiano per quante ne abbiamo ricevute. Da assuefatti e vaccinati, dunque, proviamo a fare una riflessione razionale, basata sui numeri reali.
Fortuna vuole che sia ancora disponibile, sebbene drammaticamente non aggiornato, il database dell’ISTAT contenente i dati sulle violenze contro le donne. Ancora non si sono accorti che da esso si possono trarre dati che smentiscono la narrazione dominante ed è grazie a questa distrazione, forse, che lo si può ancora consultare. Se estraiamo i dati (tabella soprastante) degli uomini di nazionalità non italiana condannati per omicidio volontario di una donna e relativi a un range accettabile di tempo (2012/2017), notiamo un dato complessivo oscillante, con una debole tendenza al calo. È anche possibile declinare il dato totale per provenienza geografica, riscontrando che la gran parte degli omicidi viene commessa da uomini dell’area europea (presumibilmente dell’est). Da notare che i numeri totali sono molto alti perché si parla di condanne, dunque di atti che vengono formalizzati dopo anni dalla commissione del delitto: i 160 del 2013, ad esempio, non indicano il numero di omicidi di donne per mano maschile straniera in quell’anno, ma le sentenze di colpevolezza emesse quell’anno per fatti avvenuti presumibilmente uno o due anni prima (talvolta anche di più). A questi dati, che sono certi al 100%, possiamo aggiungere le rilevazioni che facciamo noi ogni anno, e che dal lato del metodo possono essere considerati corretti, spulciando e verificando uno ad uno i casi di “femminicidio” classificati come tali da testate come il “Corriere della Sera” o “La Repubblica”.
Un’ipocrisia esplosiva.
Nell’invitare a consultare le rilevazioni degli anni passati, già solo riferendoci a quelli dell’anno scorso si vede come i “femminicidi propriamente detti”, così definiti dalla Polizia di Stato nel 2018, fossero 41, in media con gli anni precedenti. Di essi, 14 (cioè il 34%) sono stati commessi da immigrati. Se si applica il pro-quota stranieri sui totali nei dati rilevati dall’ISTAT, si ottengono percentuali più frastagliate, dovute alla diversa rapidità del sistema giudiziario, anno su anno, ma comunque tutte orientativamente tendenti a un dato medio del 25%. Vero è che il dato assoluto è incontrovertibile: ogni anno sono più italiani che non stranieri a uccidere donne (e per questo essere poi condannati). Tuttavia il valore assoluto può servire soltanto per alimentare una facile propaganda, non in termini di analisi. Più interessante è infatti rapportare percentuali e cifre alla popolazione adulta italiana (poco più di 22 milioni) e adulta straniera (all’incirca 2 milioni) in Italia. Ecco allora che l’incidenza normalizzata rispetto alla diversa numerosità delle due sottopopolazioni, ovvero i tassi di criminalità relativi a questi delitti per gli italiani e per gli stranieri separatamene, ci dà che, in base alle rilevazioni ISTAT, per ogni “femminicida” italiano condannato se ne hanno tre stranieri condannati. Ciò, ben intesi, non significa che sono più gli immigrati a uccidere le donne. Attenzione alle finezze della statistica: significa che nella popolazione straniera alligna una propensione all’omicidio di donne tre volte superiore a quella della popolazione italiana. Un dato di fatto che non ci aspettiamo di trovare nel periodico “dossier” del Viminale in pubblicazione oggi.
Da ciò si può concludere razionalmente che al problema del “femminicidio”, già di per sé minimale e per nulla emergenziale (30-40 casi all’anno, sebbene ognuno di essi rappresenti una tragedia inaccettabile), va sicuramente sovrapposto il problema di un’immigrazione non integrata in uno schema di valori, ben evidenziato dalla bassa propensione degli italiani all’omicidio volontario delle donne, corrente nel paese che li accoglie. Si tratta di una questione che chiama sul banco degli imputati le politiche fatte finora rispetto all’immigrazione, evidentemente più preoccupate della, pur doverosa, accoglienza umanitaria che non di processi efficaci con cui inserire i nuovi arrivati nel contesto civile del nostro paese. C’è un’intera classe politica che, in questo senso, dovrebbe essere chiamata alle proprie responsabilità. Si tratta di quella classe politica che tiene in mano i media e detta quella narrazione dominante ostile a prescindere al “maschio-bianco-etero” ed estremamente indulgente verso tutto ciò che non è italiano, a partire dagli immigrati, quand’anche delinquano. Vittime secondarie di questa lordura ideologica sono anche Mara Fait, Iris Setti, Sofia Castelli e Celine Frei Matzhol (e tante altre come loro), le cui orribili morti finiscono nell’indifferenza assoluta. Esito positivo, si è detto, è che questa raccapricciante ipocrisia finisce, in casi come questi, per esplodere in faccia a chi se ne fa bandiera e a dimostrare una volta di più la fallacia assoluta dell’indefinito e indefinibile concetto di “femminicidio”.