di Roberta Aledda. Lo sviluppo di ogni essere umano è profondamente e visceralmente legato alla tipologia di figure accudenti che ha o non ha avuto durante i primi anni di vita. Se la generazione nata intorno agli anni ’70 del secolo scorso fa i conti con le madri coccodrillo, quelle che hanno annullato se stesse per la famiglia e per i figli, quelle che hanno soffocato la donna in favore della madre, le nuove generazioni sono figlie delle mamme narciso.
Li chiamo i “bambini sacrificio”, quelli nati da mamme perennemente insoddisfatte perché credono di aver sacrificato carriera, interessi, vita sociale in favore dell’accudimento dei figli. Madri post-moderne che vivono la maternità come una sconfitta, un peso, un doversi adeguare alla volontà delle leggi sociali che impongono che la donna sia madre ma non le garantiscono alcun diritto, non le agevolano il percorso, non le sostengono in alcun modo. I figli sono quindi un sacrificio, un dovere civile e non frutto di amore e scelta consapevole con il proprio partner. Sono madri narciso, incentrate su se stesse e sui propri obiettivi, anaffettive e distanti persino fisicamente. La maggior parte di queste donne non desidera la maternità perché la considera un ostacolo alla propria emancipazione, carriera, sviluppo personale. Un intoppo insomma che le costringerebbe a sacrificare se stesse per un “qualcosa” per cui non vale la pena. È il rovescio della medaglia in cui è la donna che prende il sopravvento “uccidendo” l’essere madre.
Come se l’essere madre escludesse a priori l’essere donna e viceversa.
La madre narciso, quella perfetta e perfezionista, impatta duramente sullo sviluppo delle figlie. È provata la relazione tra questa tipologia di madri e ragazze che svilupperanno disturbi alimentari gravi (specialmente anoressia). Le madri austere, lontane affettivamente, concentrate sui successi propri e della prole scatenano un’insicurezza profonda, un intimo senso di colpa e di costante inadeguatezza rispetto ai canoni desiderati. Queste figlie sottopongono se stesse a continue prove alzando sempre più l’asticella: sempre più belle, sempre più brave a scuola, sempre più efficaci, sempre più magre. Nessuna debolezza è consentita, nessuno sgarro è concesso. Un continuo controllo esteriore per mitigare il dolore di un’anima sola, priva di affetto, in costante competizione con la figura materna.
Se la madre coccodrillo era figlia del patriarcato, quella narciso è la diretta conseguenza delle lotte femministe: le donne sono costrette a scegliere tra carriera e successo o maternità e famiglia. Una lettura della realtà dicotomica che fa comodo ai più, davanti ai (presunti) diritti dei maschi contro quelli inesistenti delle donne tutti zitti, muti e col capo chino a chiedere scusa anche solo per il fatto stesso di esistere. Come se l’essere madre escludesse a priori l’essere donna e viceversa. Come se non esistessero madri che sono anche mogli, che sono anche abili professioniste e che hanno successo. Che sono semplicemente quello che vogliono essere.
Le donne ammettano che il problema non sono gli uomini.
E il padre? Non pervenuto. La maternità oggi sembra essere solo una questione di femmine, solo altre femmine madri possono capire ma i maschi… loro proprio no. Non collaborano alla gestione familiare, alla crescita della prole, buoni solo a lavorare e accompagnare i figli a scuola, escono la mattina e tornano alla sera quando la cena è già bella pronta nel piatto. Tutta la gestione familiare è sulle spalle della donna, pare ovvio che rinunci alla propria carriera con un carico di lavoro aggiuntivo simile. La figura paterna, seguendo questa linea di pensiero, deve essere ripensata secondo caratteristiche che agevolino la propria partner e che le consentano di non doversi più annullare per i figli e la famiglia. Insomma un padre che faccia la sua parte, su cui poter contare, con cui poter dividere le fatiche domestiche e le gioie dell’essere genitore. E se invece fossimo noi donne a dover ripensare al nostro ruolo di madri? Se invece, capaci come siamo di introspezione profonda, dovessimo guardarci dentro e fare i conti con chi ci ha generato e con il tipo di madre che a nostra volta vogliamo essere?
L’alibi del “sono costretta a scegliere tra famiglia e carriera” oggi non regge più. Ci sono le condizioni per avere dei figli e fare carriera, per scegliere di dedicarsi a tempo pieno alla famiglia oppure al proprio lavoro. Si tratta di essere completamente sincere con se stesse e con il proprio partner, di valutare consapevolmente le nostre priorità, di costruire un’alleanza forte con la persona che amiamo. Non serve ripensare alla figura del padre, perché gli uomini che vogliono essere padri esistono, si prendono cura dei figli e della partner, sono affettivamente e fisicamente presenti, pronti a mettersi in gioco e sperimentarsi. Non sono “mammi”, sono padri, ci sono e sono sempre esistiti, non serve attribuire loro caratteristiche femminili per renderli maggiormente adatti alla vita familiare. Il padre, come la madre, ha in sé tutte le caratteristiche proprie del suo ruolo: sa amare, sa accudire, sa educare, sa crescere. Le donne ammettano che il problema non sono gli uomini da rieducare o società retrograde da rivoluzionare, ma la convinzione che la maternità sia un ostacolo alla propria vita e alla realizzazione personale, perché è venuto meno il legame che univa ontologicamente l’essere madre all’essere donna.