Le recenti cronache sono state impegnate di recente su due fatti che hanno suscitato discussioni e polemiche. Il primo riguarda Salvatore Montefusco, 70enne autore nel 2022, a Castelfranco, del duplice omicidio della moglie e della figlia di quest’ultima, Gabriela e Renata Trandafir, e che la Corte d’Assise di Modena ha condannato a 30 anni di carcere. Il secondo riguarda Alex Cotoia, assolto in primo grado, poi condannato in secondo grado con una sentenza annullata dalla Cassazione e di recente nuovamente assolto per l’omicidio volontario del padre, Giuseppe Pompa. Per il primo caso sono esplose numerose polemiche a causa della pena “troppo lieve” comminata all’assassino: sebbene trent’anni di reclusione per un settantenne significhino di fatto l’ergastolo, intere legioni di politici, opinionisti e lobbiste sono insorte perché si aspettavano una sentenza “esemplare“, appunto il carcere a vita. La polemica è divampata anche a seguito della pubblicazione delle motivazioni della sentenza, che argomenta la riduzione di pena (se così si può chiamare) sulla base «della comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il reato». Per lo meno così scrivono i giornali, ma vedremo che la questione è ben più complessa. Per il secondo caso invece c’è stata una standing ovation nazionale: il giovane Alex Cotoia, che nell’aprile del 2020 ha ucciso il padre con 34 coltellate sferrate con ben sei coltelli diversi, è stato definitivamente assolto dall’accusa di omicidio volontario: avrebbe agito per legittima difesa di sé e della madre, oggetto costante delle violenze e delle aggressioni del marito.
Ci sono due fili rossi che collegano queste due vicende e tutta la discussione pubblica che hanno suscitato. Il primo è stato ben sottolineato dall’ “Osservatorio Informazione giudiziaria, media e processo penale”, in un suo documento, diffuso dall’Unione delle Camere Penali Italiane. “Sentenza shock” viene definita quella per Montefusco. Una frase che, come una locomotiva, viene spinta in avanti a tutta forza contro giudici che hanno osato fare un bilanciamento di circostanze riconoscendo un’attenuante al “mostro”, che hanno contestualizzato i fatti prendendo atto che «un fattore che ha indotto l’imputato a commettere l’omicidio dopo una vita normale è stato il contesto familiare altamente conflittuale che è stato costretto a subire». Una contestualizzazione lunga 213 pagine, da cui gli scribacchini e la politichetta italiani hanno estrapolato le frasi e le espressioni giuste per montare uno scandalo. Qual è la funzione di un’informazione che opera in questo modo? L’Osservatorio non ha dubbi: «nessuna funzione riconducibile al principio sancito dall’art.21 della Cost. sulla libertà di stampa, la quale, per risultare libera, deve essere quantomeno completa e fedele ai fatti emersi nel processo». Ma c’è di più: l’assordante rumore mediatico di oggi su questa sentenza, si ripeterà uguale al momento del processo d’Appello, portando con sé un ricatto da porre sulle spalle ai giudici popolari: se non darete l’ergastolo senza attenuanti per un duplice “femminicidio”, vuol dire che lo giustificate come hanno fatto i giudici di primo grado. Il tutto in barba al principio di civiltà giuridica per cui «la pena deve essere “proporzionata”, non esemplare né vendicativa».
La chiave è l’odio per l’uomo.
Ed è proprio la giustizia interpretata come vendetta che ha portato all’esultanza per l’assoluzione di Alex Cotoia, sancita proprio da quel secondo grado di giudizio gestito in maggioranza da giudici popolari, quindi assai più inclini a farsi condizionare dalla pressa massmediatica. Il “popolo” voleva il ragazzo non solo libero, ma addirittura portato sugli scudi, nonostante le amplissime zone grigie su quanto accaduto: l’assenza di segni di colluttazione in casa, l’uso di sei coltelli, le 34 coltellate (che suggeriscono più un accanimento che una legittima difesa) e il ruolo del fratello. Ed è qui che emerge il secondo filo rosso, poco visibile ma pesantemente presente. La chiave di tutto sta proprio nel concetto di contestualizzazione, un procedimento logico che nel tempo si è affermato come del tutto proibito, quando si tratta di considerare un uomo accusato di omicidio, e che invece va dilatato fino a deformarlo quando si tratta dell’uccisione di un uomo che si presume (non si sa con certezza: essendo morto non può più dire la sua…) violento. Queste norme di condotta sulla contestualizzazione vennero messe nero su bianco da Michela Murgia proprio nel 2020, in una “velina” da MINCULPOP fatta recapitare a tutti i mezzi d’informazione del gruppo GEDI. Vi si diceva a chiare lettere che quando un uomo uccide una donna è vietato contestualizzare, dando per scontato che la contestualizzazione era invece obbligatoria a sessi invertiti. In un caso il centro di tutto è che lui ha ucciso lei, punto e stop; nell’altro caso, si deve contestualizzare anche all’estremo pur di poter dire che c’è un uomo violento di meno in circolazione, quindi evviva.
Questa narrazione, che si è affermata nel corso degli ultimi 25 anni e che con la sua “velina” la Murgia cristallizzò con particolare cinismo, ha pervaso e pervade la comunicazione mediatica e dunque le convinzioni generali della gente. Non è cosa da nulla, perché è proprio la contestualizzazione che, per legge, permette a un giudice di operare quel bilanciamento di circostanze, attenuanti e aggravanti che lo portano poi a comminare una pena. Si tratta di uno dei meccanismi-chiave per consentire che un sistema articolato come quello giudiziario non si presti a una persecuzione mirata a un gruppo specifico di persone, ma sia forzato a valutare caso per caso, nel perseguimento della più equilibrata forma di giustizia. Che è tale perché non pretende di essere “esemplare” e tanto meno vendicativa. Se non che il carattere esemplare e vendicativo è proprio ciò che il clima socio-culturale prodotto dal femminismo ha affermato come desiderio collettivo verso uno e un solo soggetto: l’uomo. Secondo una visione che è pura fiction, egli è portatore di imperdonabili colpe storiche e di una tara genetica (quella di essere un violento oppressore), quindi va punito in modo esemplare, tale da vendicare i milioni di donne oppresse nella storia e nel presente. Dall’altro versante, chiunque ne sopprima uno, se non va premiato, in ogni caso va mandato assolto, secondo un protocollo che dal “caso Sciacquatori” del 2019 al caso Cotoia di oggi è stato ormai santificato come un brocardo indiscutibile della prassi giudiziaria. Il secondo filo rosso che unisce le due vicende, insomma, è l’odio verso gli uomini, a cui si vuole piegare a suon di scandali mediatici un sistema delicato, costruito apposta per essere il più giusto ed equilibrato possibile. È evidente a tutti che la verità sia questa, tutti lo sanno, ma tutti (tranne noi) hanno paura a dirlo perché chi promuove questa deriva sessista è potente e pericoloso, da un lato, e dall’altro a dirlo non ci si guadagna in click e visibilità.