La Fionda

Marina Terragni: l’ambivalenza serio-comica di una femminista

Qualche giorno fa il femministissimo Huffington Post ha intervistato Marina Terragni, esponente di lunga data del femminismo italiano, docente universitaria e scrittrice (autrice del libro “Gli uomini ci rubano tutto”, tanto per dare la misura…). Diversamente dal movimento maschile, per il quale il femminismo è uno ed è un male in ogni sua forma fin dalla sua “invenzione”, le varie correnti del femminismo hanno la necessità di incasellare le persone e il loro pensiero in diverse “correnti” o “ondate”, ed è così che la Terragni viene etichettata da vari altri gruppi di “sorelle” come “femminista tradizionale” o, in modo spregiativo, TERF (“Trans-Exclusionary Radical Feminist”, femminista radicale che esclude i trans). Lo spregio viene, naturalmente, dal fatto che ad oggi quello che va per la maggiore è il femminismo intersezionale, che ricomprende un po’ ogni tipo di conflitto o minoranza, incluse le istanze LGBT e la sostituzione, coerente con l’ideologia queer, del “genere” al posto del “sesso”. Le femministe come la Terragni non sono disposte ad accettare questo tipo di sostituzione e ciò le ha messe in urto di recente con iniziative di legge come il DDL Zan, in particolare con la quadripartizione dell’essere umano asserita proditoriamente nel suo articolo 1 (ne abbiamo parlato qui). È indubbio che alla base dell’accantonamento della legge sedicente “contro l’omofobia” ci sia stato il micidiale combinato disposto tra l’opposizione del femminismo tradizionale e quella del Vaticano: a distanza di qualche mese, l’HuffPost chiede conto dell’accaduto alla maggiore rappresentante dell’opposizione a quella legge, appunto Marina Terragni, in un’intervista davvero di grande interesse, specie per la netta bipartizione dei suoi contenuti.

La prima metà dell’intervista infatti è dedicata proprio ai motivi dell’opposizione del “femminismo tradizionale” al DDL Zan e, più in generale, a quella corrente del femminismo che pur di includere indiscriminatamente gli uomini trans nell’alveo dei diritti femminili è disposta a comprimere senza pietà e ad ogni costo la libertà di parola, quando non la libertà tout-court. La Terragni ha qualcosa da raccontare in merito, e coglie l’occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Lamenta infatti un’intervista saltata con una femminista americana, che le ha dato buca ritenendo le sue domande “transfobiche”, ma soprattutto denuncia un tentativo di cacciarla dall’università dove insegna (Iuav a Venezia) da parte della direttrice del corso. «Certe tue idee sono sgradite a me e agli studenti», le avrebbe detto, non riferendosi in generale al suo femminismo, il che avrebbe avuto assolutamente senso, ma al carattere “trans-escludente” del suo femminismo, la cui non conformità avrebbe dovuto indurre la Terragni a farsi da parte. Cosa che naturalmente non ha fatto chiedendo invece che la dirigente si assumesse la responsabilità dell’estromissione licenziandola. Pari e patta, nulla è accaduto, ma la pressione c’è stata e la Terragni prende atto con coscienza di quanto il femminismo intersezionale sia in grado oggi, semplicemente applicando l’etichetta di “fobico”, di rovinare vite e carriere. Non sa, o finge di non sapere, che quello tradizionale non è tanto diverso, infatti fa quasi tenerezza quando dice: «meno male che, in Italia, e in Europa, ci si scandalizza ancora di fronte ai bavagli». Certo, ma solo se si tratta di bavagli a danno di versioni comunque conformi al pensiero unico: chi se ne discosta davvero viene imbavagliato senza tante storie, anzi la censura riceve anche un applauso. E noi ne sappiamo più che qualcosa in merito.

marina terragni
Marina Terragni

L’uomo invidioso della potenzialità procreativa femminile.

Ad ogni buon conto, il punto di vista della Terragni è complesso, profondo e interessante: «c’è molto da dire sull’identità di genere, non ultimo che io non sono un genere, ma sono una donna», dice, non senza giustificato orgoglio. Non è accettabile consentire a una persona di autocertificare il proprio genere al di là del dato biologico, ma soprattutto simbolico. Consentirlo significa intaccare «la dimensione simbolica dell’umano. Il maschile e il femminile riguardano l’intera civiltà umana, non soltanto il singolo individuo. Per questo, non è sufficiente un’autocertificazione ed è necessario, invece, un percorso che tenga conto dei diritti del singolo e di quelli della comunità». La dimensione simbolica dell’umano, non può e non deve essere sovvertita «perché il maschile e il femminile sono radicati nei corpi. Non sono discorsi campati in aria. La binarietà sessuale – maschio, femmina – è un dato incontrovertibile. Nessuna teoria può sovvertire questo dato di fatto». L’intervistatore a questo punto la stuzzica nel modo più scontato, accusandola velatamente di dare più importanza al fatto biologico che agli effetti della cultura. Si tratta di una delle accuse più gravi oggigiorno, equivale a un’accusa di eresia nel Medio Evo, ed è da qui che la Terragni mostra poco coraggio. Invece di affermare con chiarezza, come dovrebbe, che il fatto biologico, in quanto tale, c’è ed è innegabile, e su di esso si innestano fattori culturali mutevoli che però non cambiano il setting biologico, svia altrove il discorso, dando l’innesco alla seconda parte dell’intervista.

E se la prima parte poteva trovarci abbastanza vicini e solidali al suo pensiero e al suo vissuto di sopravvissuta alla censura, la seconda, dove snocciola i postulati dei suo femminismo, è sideralmente distante da qualunque margine di accettabilità. L’articolazione del suo pensiero parte dalla negazione della teoria freudiana della “invidia del pene” di cui le donne sarebbero vittime: «un sentimento che nessuna donna che ho conosciuto ha mai provato in vita sua», dice, saltando d’un balzo tutti gli aspetti inconsci eventualmente implicati nell’ipotesi dello psicologo austriaco, ma soprattutto il principio statistico secondo cui le conoscenze personali difficilmente possono essere un campione statistico rappresentativo. In ogni caso per la Terragni sussiste un’altra invidia, quella maschile verso la capacità-potenzialità procreativa delle donne. Potremmo facilmente recuperare i suoi metodi e rispondere che nessuno degli uomini che abbiamo conosciuto ha mai provato un’invidia del genere, ma sarebbe sciocco e superficiale. Esattamente come il concetto in sé espresso dalla scrittrice quando dice che «nessuna tecnica, per quanto mirabolante sia, è ancora riuscita ad attribuire a un uomo» il potere di generare, ed è da qui che nascerebbe la sua invidia. Dimentica, la Terragni, che per ora nessuna tecnica, per quanto mirabolante sia, è ancora riuscita ad attribuire nemmeno alla donna il potere di generare da sola, per partenogenesi. Un intervento maschile, anche solo indiretto, per ora rimane indispensabile. Dunque come fa l’uomo a essere invidioso di una potenzialità che in ogni caso può esprimersi solo in sua presenza? Non si sa. Ma la contraddizione qui è tollerata perché il discorso della Terragni non è tanto contro il maschile in sé bensì, si capisce chiaramente, contro il mondo transgender e le pretese bislacche di donne transizionate a uomo che però partoriscono o uomini transizionati a donne che vogliono essere assecondati nel loro desiderio intimo di avere il cliclo mestruale o combinazioni varie di tutto questo.

liberazione sessuale

Preservare quel po’ di civiltà raggiunta.

Il discorso contro il maschile della Terragni si radicalizza poco dopo, istigato anche dall’intervistatore. «Il mondo è molto cambiato», dice la scrittrice, aggiungendo poi, con invidiabile coraggio: «ma essere donne continua a essere difficile». Essere uomini invece è una vera favola, come mostrano gli undici morti sul lavoro in 48 ore di pochi giorni fa. Il problema forse, suggerisce l’intervistatore, è che “i maschi” (non “gli uomini”, si badi bene) temono le donne? Un assist perfetto, e Terragni va in gol a modo suo: «è così, infatti», e prosegue nella teoria secondo cui “virilità” è sinonimo di controllo e che il mondo maschile è terrorizzato all’idea che le donne possano circolare senza freni, nude per strada, facendo sesso liberamente. «C’è l’incubo della donna sessualmente vorace, incontenibile, incontentabile, un incubo radicato anche nel fatto che la donna può ripetere più volte l’atto sessuale, mentre l’uomo no». Ed ecco allora che per tenere sotto controllo queste vagine potenzialmente insaziabili, tutti gli uomini sono sostanzialmente dei talebani. Chi più, i talebani stessi, e chi meno, gli uomini occidentali, tutti accomunati da una stessa ansia: frenare questa potenza nucleare che è la sessualità femminile attraverso la violenza (i talebani) o la sorveglianza (gli uomini occidentali). È in questo rosario di concetti che, soprattutto, emerge la differenza assoluta tra femministe “radicali” e “intersezionali”. Mentre le seconde mettono paura per la follia totale dei loro postulati, le prime, a leggerle bene, fanno sorridere, quando non talvolta proprio ridere sonoramente.

Al di là del fatto che una buona porzione di uomini contemporanei sarebbe ben felice che la sessualità femminile diventasse espressa, esibita, vorace e incontenibile come la descrive la Terragni, di fatto lo scenario ipotetico che dipinge è già realtà: le donne, per lo meno in occidente, circolano già senza freni, (mezze) nude per strada, facendo sesso liberamente e questo non terrorizza proprio nessuno. Al massimo deprime quegli uomini che per svariati motivi non riescono a cogliere tali e tante occasioni. Di contro, è noto dalla notte dei tempi, la donna sessualmente vorace è un’eccezione assoluta: le priorità femminili, per natura, sono altre, che vengono perseguite e raggiunte attraendo verso di sé una voracità sessuale genuina, quella maschile. Non è chiaro poi cosa intenda la Terragni quando si riferisce al fatto che la donna possa ripetere più volte l’atto sessuale e l’uomo no. Non ci risulta che all’uomo dopo un rapporto si spezzi il pisello e muoia, come capita al pungiglione delle api maschio. Al massimo l’uomo ha tempi di ricarica un po’ più lunghi, ma non è un deficit che possa suscitare invidia o terrore, o addirittura indurlo al controllo della sessualità femminile. Che anzi dovrebbe essere ancora più libera di quel che è. Purché però anche quella maschile lo sia altrettanto, in modo da non creare quegli squilibri di potere che invece ci sono e pesano come macigni, come si è detto di recente, sia sugli individui che sulla società tutta. Ed è emblematico che la Terragni stessa finisca per ammetterlo, quasi una voce dal sen sfuggita, quando riferendosi alla totale e assoluta libertà sessuale femminile chiosa: «è il simbolo di cosa può succedere se non si tengono a bada le donne, la distruzione della civiltà». Sì, esatto, cara Terragni. Capita quando in una situazione di equilibrio una delle componenti, non importa quale, prende il sopravvento. Per questo ciò che lei (almeno in occidente) scambia per “sorveglianza” maschile di carattere meramente sessuale, è in realtà la volontà tutta virile di tentare di preservare e magari far avanzare quel po’ di civiltà che con tanta fatica uomini e donne hanno costruito congiuntamente in secoli di evoluzione e sacrifici, e che il femminismo (tutto) ha l’ambizione di demolire fino alle fondamenta.



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