Nella prima parte di questo articolo abbiamo iniziato a raccontare il vortice di accuse, mosse tramite post sui social media, che lo scorso febbraio ha travolto la rockstar “maledetta” Marilyn Manson, ad opera della sua ex-fidanzata Evan Rachel Wood e in seguito, nel giro di poche ore, di una dozzina di altre sue ex-compagne o collaboratrici tra cui l’attrice Esme Bianco. Si tratta del caso più recente di una lunga serie che ha caratterizzato il movimento #metoo, in cui si rivelano “a cascata” presunti abusi e violenze da parte di un personaggio di successo. In questo caso Manson si è visto distruggere reputazione e carriera nel giro di 48 ore, solo sulla base di post pubblicati sui social media. Le accuse seguono quello che sembra un copione scritto da un’unica mano (molto sapiente): umiliazioni, manie di controllo, abusi fisici, deprivazione del sonno, isolamento da famiglia e amici, pratiche sessuali sopra le righe – a cui, ribadiamo, non risulta, dalle stesse dichiarazioni, sia mai stato negato il consenso all’epoca dei fatti, quindi trattasi di un consenso “ritrattato” ex post. Per ragioni di spazio non possiamo soffermarci sulle singole accuse. Alcuni blogger e insiders in questi mesi sono riusciti a decostruire, attraverso una attenta ricognizione delle notizie pubblicate su social e testate giornalistiche, il merito delle accuse delle presunte vittime e le testimonianze di altre ex-compagne o collaboratrici della rockstar. Unanimi nel descrivere la sua correttezza professionale e personale, contribuiscono a decostruire alcune accuse, facendo emergere dettagli significativi.
È stato dimostrato ad esempio che alcune delle vittime fossero in realtà notoriamente artiste e performers della scena del sesso estremo già prima dell’incontro con Manson. Sempre a titolo di esempio, una foto pubblicata da Esme Bianco raffigurante una schiena ferita da colpi di frusta (ma dichiaratamente per la realizzazione di un corto), in realtà non mostri affatto ferite da frusta, bensì segni di legamenti di corda (probabilmente per fotografie di bondage) e che comunque la vittima non avesse sulla schiena, all’epoca dei presunti fatti, cicatrici da ferite di quel tipo. Alcune delle accuse sfiorano francamente il ridicolo, come sottolineato da diversi commentatori: come ad esempio quella di “sequestro di persona” (Warner pagò in anticipo il volo ad Esme Bianco, per raggiungerlo a lavorare a un corto: l’attrice accettò e prese l’aereo in autonomia, in pratica rapendosi da sola). O ancora l’accusa di aver sottoposto alcune vittime a tortura fisica per aver tenuto in casa propria luci basse e il condizionatore a 62 °F (17 °C), come Manson pare sia abituato a fare o quella di aver mostrato a una delle vittime uno “snuff movie” in cui avrebbe abusato sessualmente e fisicamente di una fan minorenne (in realtà si trattava di un corto artistico, girato da un’attrice maggiorenne, che in seguito ha collaborato ad altri film di Manson). Ma è tutta questione di contestualizzare, di usare i giusti termini. Non è stare svegli tutta la notte a fare bagordi, è “deprivazione del sonno”; non è corteggiamento, è “love bombing” manipolatorio e patologico, eccetera.
Il gruppo che sostiene il “Phoenix Act”.
Nonostante certi aspetti folkloristici facciano sorgere un più che legittimo sospetto sulla credibilità delle accuse, queste hanno recentemente preso la forma di due vere e proprie denunce (qui analizzate in dettaglio), da parte di Esme Bianco e un’altra persona anonima, sulle quali naturalmente si pronunceranno le magistrature coinvolte. C’è però un altro lato della vicenda che contribuisce a questo legittimo sospetto, e che tocca la sfera politica, quell’attivismo per la social justice di cui la prima e più famosa accusatrice di Manson, Evan Rachel Wood, è protagonista di spicco. Da ben prima di aver mosso queste accuse alla rockstar, infatti, la Wood è una delle principali promotrici della campagna di sensibilizzazione per il Phoenix Act, un disegno di legge (approvato nel 2020 in California, ma le attiviste premono per diffondere in tutti gli Stati Uniti) che estende il lasso di tempo entro cui è possibile denunciare la violenza domestica – ovviamente sempre descritta a senso unico, da carnefici maschili a vittime femminili – da tre a cinque anni.
Questo collegamento è rilevante anche perché, sempre “casualmente”, la principale compagna di Evan Rachel Wood in tale battaglia (e, come si vocifera, forse anche nella vita), Illma Gore, artista e femminista radicale nota per aver dipinto Donald Trump con un “micropene”, si era adoperata, qualche mese prima delle accuse pubbliche a Manson, in un vero e proprio reclutamento di sue potenziali vittime. Cosa che sappiamo grazie a una commentatrice, artista a sua volta, poetessa e fiera blogger antifemminista, Greta Aurora Hadesz. La Hadesz fu tra i primi a difendere pubblicamente Manson rivelando alcuni dettagli di un weekend passato con lui, da fangirl che a 19 anni incontra il suo idolo, descrivendo un comportamento da parte della rockstar rispettoso, non prevaricatore anzi piuttosto timido, e rivendicando la propria piena responsabilità per l’esperienza vissuta. La Hadesz ha pubblicato il contenuto tramite screenshots di alcune e-mail ricevute da Illma Gore (ad oggi non smentite), in cui le scriveva quale «intima di Evan Rachel Wood» e «per conto del gruppo che sostiene il Phoenix Act», e la invitava a partecipare, quale giovane ragazza che aveva avuto un contatto con Manson, a «un gruppo di persone per parlare di esperienze che potrebbero essere simili». La Hadesz ha deciso di non contribuire al circolo, ma di stare dalla parte della (propria) esperienza e verità, e tuttora si impegna nell’analisi critica della vicenda.
Una reputazione distrutta in 48 ore.
Nonostante inizialmente tale cascata di rivelazioni sia stata fatta passare appunto come meccanismo puramente circostanziale (una si espone e altre, che non hanno mai avuto rapporti con lei, trovano la forza di parlare), è stato poi dimostrato che pressoché tutte le “vittime” di Manson si conoscevano già da anni, con relazioni personali di amicizia o professionali di lunga data. Alcune avevano perfino pubblicato fotografie che le ritraggono insieme, in atteggiamenti di confidenza, in feste private. Coincidenze? Emerge chiaramente uno schema ormai tristemente noto, in cui piccoli circoli di persone che hanno avuto contatti con un personaggio di successo, di concerto con gruppi organizzati come associazioni, studi legali e testate giornalistiche, architettano uno scandalo pubblico. L’elemento relativamente innovativo nel caso Manson è che si usano fatti probabilmente veri, ma legali e perlopiù innocui (e comunque agiti con il pieno consenso di tutte le persone coinvolte), stravolgendone l’interpretazione, ristrutturando il racconto per mezzo di terminologie e dinamiche tipiche delle relazioni tossiche (narrazioni in cui il confine della responsabilità personale e del consenso diventa sfumato), sfruttando all’uopo anche l’immagine “maledetta” del bersaglio. Cosa hanno da guadagnare le persone che hanno partecipato a questa operazione? Qualcuno, potenzialmente, soldi, sperando magari in un patteggiamento (coloro che hanno effettivamente fatto partire denunce). Altre, notorietà: ad esempio una delle presunte vittime, Chloe Black, cantautrice, pubblicò il singolo Title Track, sul tema della violenza sessuale, “casualmente” due giorni prima le rivelazioni di Evan Rachel Wood, alle quali si accodò il giorno dopo. La Wood e la sua compagna Illma Gore, specialmente, ottengono influenza e credibilità sul piano politico: è indubbio che questa vicenda ha dato forza alla campagna che sostiene il Phoenix Act, e a loro stesse autorevolezza quali attiviste a favore della social justice.
In tutto questo c’è un uomo la cui carriera e reputazione è stata distrutta in 48 ore. Immediatamente, senza possibilità di appello. E possiamo immaginare che anche la sua compagna stia soffrendo di questa situazione, benché non “inquantodonna”, bensì in quanto innamorata dell’uomo “sbagliato”. È questa la macchina delle false accuse, che con la connivenza di buona parte dell’opinione pubblica, diventa strumento anche di quella cancel culture che vorrebbe spazzare via ogni traccia di politically uncorrect dal patrimonio intellettuale e artistico presente e passato. Fortunatamente è un lavoro titanico, che incontra ancora resistenze e in certi casi anche indignazione. Ma intanto, così come accaduto ad altri come Michael Jackson, o il suo amico fraterno Johnny Depp (protagonista di una vicenda per molti versi parallela – in cui sta però faticosamente riuscendo a ribaltare le accuse dell’ex-moglie Amber Heard, peraltro amica stretta di Evan Rachel Wood), per chissà quanto Marilyn Manson sarà ricordato dal pubblico generale solo come un violento, manipolatore carnefice di povere fanciulle indifese. Suo malgrado, anche in questo, grandiosa icona del nostro tempo.