di Fabio Nestola. La morte drammatica di Maria Paola Gaglione ha dato la stura allo tsunami di strumentalizzazione che si sta rovesciando sulla stampa, in rete, in tv. Femminicidio, femminicidio, femminicidio, violenza sulle donne, e poi ancora femminicidio, femminicidio, femminicidio, omotransfobia, e poi ancora femminicidio, femminicidio, femminicidio. No, non è un femminicidio. Senza nulla togliere al terribile strazio per una giovanissima vita persa, quanto accaduto richiede un’analisi profonda nella sua complessità e sarebbe riduttivo, miope e terribilmente fazioso sostenere, come molti fanno, che Paola sia stata uccisa perché il fratello ha esercitato su di lei quel potere di vita e di morte che nascerebbe dal patriarcato.
I fatti. Maria Paola aveva una relazione con una donna che si sentiva un uomo e si faceva chiamare Ciro, la cosa non era stata presa bene dalla famiglia di lei (non dal solo fratello Michele ma dall’intera famiglia). Quel rapporto destava preoccupazione per una serie di motivi: la relazione era iniziata quando Maria Paola aveva solo 15 anni e Ciro 19, lei aveva abbandonato la scuola, da minorenne si era allontanata da casa per andare a vivere con la ragazza maggiorenne. “Sembrava vivesse la sua storia d’amore con Ciro appoggiandosi presso residenze provvisorie, ora da amici, ora dai parenti di lui”, riferisce all’ANSA Don Patricello, il sacerdote col quale si confidavano madre e padre. “Ciro” aveva dei precedenti con gli stupefacenti. In una piazza di spaccio come Parco Verde di Caivano o spacci o ti fai, o entrambe le cose. Insomma non c’erano le minime basi per un rapporto tranquillo, né dal punto di vista sociale né da quello economico. Infine le ragazze si erano conosciute quando lei si faceva chiamare “Cira”, dicendo di essere un transessuale.
I “professionisti dell’informazione” la pensano diversamente.
Ma gran parte dei media riporta solo questo ultimo particolare, come se fosse l’unico motivo di preoccupazione per la famiglia, l’unica anomalia che il fratello Michele è stato chiamato a “raddrizzare” come si fa da quelle parti. Maria Paola è morta per errore, un terribile, tragico ed irreparabile errore ma sempre di errore si tratta. Un inseguimento tra due scooter, calci e tentativi di speronamento, alla fine lo speronamento riesce e i tre rotolano a terra. Solo Maria Paola non si rialza più. Non c’è premeditazione omicida, l’intento di Michele era quello di fermare la coppia per dare una lezione a “Ciro” e spingerlo a lasciare in pace Maria Paola, la sorella non voleva nemmeno toccarla. Prova ne sia che, le cronache riferiscono, dopo l’incidente si sia scagliato contro Ciro rimasto a terra, senza accorgersi che la sorella era deceduta in seguito alla caduta e all’urto della testa contro una colonnina di cemento.
Urto fortuito quindi morte fortuita, non c’era la volontà di uccidere nessuno, né Ciro né tantomeno Maria Paola. Poi l’imprevisto è in agguato: tutti e tre senza casco dice la polizia, cosa normale nei luoghi dove chi indossa il casco è malvisto perché si presume che stia per compiere un attentato, un omicidio, comunque qualcosa di illecito. Il resto d’Italia lo ha saputo tramite Gomorra, li è davvero così. Su questa tragica fatalità si sono tuffati in tanti, dagli immancabili urlatori del femminicidio alle lobby GLBT che non hanno perso l’occasione per pubblicizzare il numero verde Gay Help Line (come se una telefonata avesse potuto salvare la vita di Maria Paola), per promuovere la legge Zan, per contestare gli emendamenti, per chiedere fondi nella legge di bilancio. La morte di una ragazza diventa un pretesto per chiedere soldi. Il nesso, sinceramente, mi sfugge. A me sembra sciacallaggio sul cadavere di Maria Paola, ma evidentemente solo a me poiché l’ANSA ha dato voce a questo genere di rivendicazioni. I professionisti dell’informazione, insomma, la pensano diversamente.