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Aspettando novità dalle sedi giudiziarie interessate, rimaniamo in stallo con la nostra storia. Nell’attesa, ci dedichiamo all’esplorazione di ambienti ed avvenimenti confacenti alla nostra narrazione. Cronache cicliche hanno lasciato intravedere spesso un sodalizio criminale in grado di condizionare l’attività giurisdizionale attraverso complicità e collusioni che arrivano a ridosso dei centri di comando della magistratura. Uno dei settori che con il trascorrere del tempo ha mostrato maggiori criticità è quello dei fallimenti e delle vendite giudiziarie. Spesso ha garantito totale impunità ai magistrati in combutta con banche, finanziarie, usurai, immobiliaristi, politici, associazioni segrete e criminalità organizzata. Indicativa per comprendere quanto sia vecchio il tema delle infiltrazioni criminali nei tribunali è la scomparsa del magistrato romano Paolo Adinolfi, avvenuta la mattina del 2 luglio del 1994, vittima della sua determinazione e della sua inflessibilità. Pochi giorni prima aveva confidato alla moglie che, “come cittadino informato dei fatti”, intendeva recarsi da un collega a Milano per metterlo a parte di alcuni “traffici” che si realizzavano nel tribunale di Roma.
Quanto ci appare oggi osservando i comportamenti di determinati magistrati ha origini datate. E’ il mutato modo d’intendere le stesse finalità dell’ordinamento giuridico, secondo una visione depravata dei principi dello stato di diritto, ormai entrata a fare parte della cultura prevalente e delle inique logiche dell’amministrazione della cosa pubblica, ad esclusivo appannaggio di gruppi affaristici trasversali, corporazioni e logge massoniche che della giustizia e del suo minuzioso controllo hanno fatto un metodo occulto di arricchimento. Nella gara vince chi ha le giuste aderenze e riesce ad entrare nel “giro”. A scorrere le cronache dell’ultimo anno siamo alla Caporetto della giurisdizione. C’è il caso dell’ex procuratore a Trani ed a Taranto che, secondo la procura di Potenza, per anni avrebbe venduto il suo ruolo in ambedue le procure per favorire avvocati suoi amici e, soprattutto, per garantirsi una spinta alla carriera. Ci sono il giudice ed i professionisti che, dopo le indagini della Guardia di Finanza di Brindisi, sono stati accusati di aver messo in piedi una associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, abuso d’ufficio, riciclaggio, autoriciciclaggio e falso in atto pubblico. C’è il magistrato di Catanzaro interdetto per un anno dalle funzioni per falso ideologico. C’è la richiesta di rinvio a giudizio di una procura lucana per un magistrato insieme ad altre diciannove “complici”. C’è l’inchiesta “Genesi” relativa alla procura di Catanzaro.
C’è la condanna a due anni dell’ex giudice di pace del tribunale di Verbania. Ci sono gli undici magistrati della procura di Milano sotto indagine. Singolare il destino di certa magistratura appartenente al distretto della corte d’appello ambrosiana, passata, con il trascorrere degli anni, dai “fasti” di Tangentopoli alle numerose inchieste della Procura di Brescia, territorialmente competente per le presunte violazioni di legge dei colleghi milanesi. Quasi tutti i procuratori che hanno diretto la procura di Brescia erano toghe provenienti dalla procura di Milano. Il distretto della Corte d’appello di Milano è formato dai circondari dei tribunali ordinari di Busto Arsizio, Como, Lecco, Lodi, Milano, Monza, Pavia, Sondrio e Varese. Alcuni anni addietro in questo distretto imperversò la cosiddetta “compagnia della morte”, la quale pilotava le assegnazioni di immobili pignorati a prestanomi riferibili a dei magistrati o a dei loro parenti. Potremmo continuare a lungo per raccontare le varie amenità che hanno caratterizzato diversi tribunali. La stragrande maggioranza di questi “misfatti” è finita o finirà a tarallucci e vino. Giunti a questo punto l’intero établissement ci appare del tutto irriformabile. Abbiamo un governo che calpesta le libertà fondamentali di parecchi milioni di concittadini che non possono o vogliono vaccinarsi contro la pandemia, che favorisce la loro ghettizzazione e/o la loro colpevolizzazione, un ineffabile esecutivo che consente le menzogne per sostenere, con inflessibile rigore, il sessismo istituzionale ed erogare in tal modo cospicui finanziamenti ai CAV.
E’ la stessa compagine governativa che, con disprezzo per le basilari necessità dell’utenza dei tribunali, vorrebbe cambiare la normativa sul “contributo unificato”. Se la modifica di stampo “classista” dovesse essere accolta, ogni procedimento tribunalizio potrebbe iniziare solo dopo il pagamento dell’intera somma stabilita come tassa per le spese giudiziarie. Nell’atmosfera surreale che sembra avvolgere l’Italia odierna, qualche giorno fa, Nino Di Matteo ha rilasciato un’intervista televisiva. Nel corso della stessa ha rivelato cose molto preoccupanti anche sulle cordate che agiscono all’interno della giurisdizione. Tra le frasi più trancianti ci ha colpito quella riservata ai “capi” della magistratura: “Comandano con logiche mafiose”. La perentorietà delle sue dichiarazioni avrebbe dovuto causare nei giorni successivi qualche reazione risentita, quanto meno dei suoi colleghi, ma non ci è dato di conoscerne qualcuna. Ciò che in un paese normale avrebbe fatto un grande clamore da noi ha prodotto lo stesso rumore e stupore che produce il turacciolo di sughero di una bottiglia di vino quando cade dalla tavola sul pavimento. Dopo la denuncia televisiva di Di Matteo, dopo il libro di Palamara e Sallusti, dopo la denuncia del p.m. Storari, dopo avere conosciuto numerosi casi di combine e di mercimoni perfezionatisi in adiacenza delle aule di giustizia o in qualche bar ad esse vicino, è lecito fare una riflessione sullo stato del diritto e sull’autogoverno della magistratura così come si sono evoluti nel tempo. Rapportando il diritto all’istituzione familiare possiamo dire che nell’intenzione del legislatore costituzionale la famiglia incarna la medesima posizione privilegiata retaggio della tradizione romanistica. L’opzione per un dato sistema normativo, proiezione di un determinato assetto valoriale, può incidere nella progressiva caratterizzazione della struttura sociale.
Il quadro di riferimento culturale per la famiglia è cambiato ed è così che ha preso vigore la figura dell’amministratore di sostegno, professionista esterno al nucleo che secondo l’art. 379 c.c. dovrebbe operare gratuitamente. Il giudice, per entità del patrimonio o particolari difficoltà di gestione, può riconoscere all’amministratore di sostegno, che lui stesso ha nominato, un indennizzo calcolato in base alle mansioni svolte o autorizzarlo a collaborare con persone stipendiate. Se il nominato è un avvocato il suo incarico viene ritenuto attività professionale di natura remunerativa tassabile. L’indennità ed i costi sono a carico del beneficiario del decreto giudiziale o dei suoi eredi. E’ in questa cornice che matura la vicenda del prof. Carlo Gilardi. Il decreto che lo riguarda è stato emesso da un giudice tutelare con esperienza di servizio nel settore delle esecuzioni immobiliari di Sondrio (distretto della corte d’appello di Milano). Proviene dallo stesso distretto il consulente nominato dal G.T. che ha redatto la C.T.U. sull’anziano insegnante. Contro i servizi televisivi del programma “Le Iene” si è scagliato il CSM, negando di fatto quello che è a tutt’oggi ampliamente documentabile.
All’epoca in cui furoreggiava la “compagnia della morte”, qualche magistrato, anziché indagare i faccendieri, ha vergognosamente perseguito le vittime recalcitranti degli imbrogli per diffamazione, calunnia e richiesta di danni morali. L’esperienza maturata sui temi in esame ci porta ad attribuire poca importanza ad interrogazioni ed interpellanze di deputati e senatori, rituali con grande visibilità per il collegio elettorale del parlamentare ma, quasi sempre, privi di risultati pratici. Nel caso di specie, con l’interpellanza “Fragomeli”, e non poteva essere altrimenti, il sottosegretario alla Giustizia ha risposto (è questo il successo conseguito?) con la “verità giudiziaria” accertata a Lecco. E’ proprio quella che, caratterizzata da contraddizioni e anomalie, non viene riconosciuta da coloro che hanno vissuto in prima persona, hanno puntualmente letto, filmato e/o registrato i fatti accaduti in quel di Airuno. Veritas non auctoritas facit legem. A prescindere dalle sue peculiarità e dalla sua professionalità, la “legge” la fa il giudice. Ad uso del lettore ricordiamo che la procura di Brescia è territorialmente competente per i reati che ipoteticamente potrebbero commettere le toghe lecchesi. Alla sua direzione c’è attualmente un magistrato che, dal 1991 al 2008 ha prestato servizio a Milano come sostituto procuratore. Proteggere il prof. Carlo Gilardi (e sicuramente non dal comportamento lineare ed affettuoso dell’ex “badante” allogeno, probabilmente inviso a qualche maggiorente autoctono) non significa doverlo segregare, pure dopo avergli “confiscato” tutto il patrimonio.