La Fionda

Magistratura da incubo: una storia vera a puntate (45)

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A proposito della corte d’appello, chiamata in causa per la seconda volta dal protagonista della storia che stiamo narrando, non ci sono novità per la fissazione delle due udienze previste. Con il reclamo relativo alla madre, fatto nel gennaio 2021, dopo il deposito dell’atto, il nostro amico ha aspettato un mese per conoscere la data della discussione sul merito e due mesi per conoscere quella concernente la richiesta di sospensiva del provvedimento adottato in primo grado. Ricordiamo invece al lettore che lunedi 11 ottobre si perfezionerà l’oltraggio della volontà della sorella del reclamante, con l’assunzione dell’incarico quale A.d.S. di un avvocato nominato dal giudice tutelare. Il desiderio della donna di restare “affidata” alle cure del fratello è stato doppiamente calpestato: per quanto la forzata beneficiaria di amministrazione di sostegno aveva già previsto e deciso con una procura notarile firmata il 7 marzo 2013 e per quanto aveva chiesto al G.T. nell’udienza del 10 maggio 2021. Naturalmente, è cosa che si capisce al volo, la decisione del giudice è stata adottata “nell’interesse della donna”.

Per associazione di idee sentiamo ancora le urla del prof. Carlo Gilardi internato in una RSA contro il suo pur fermo rifiuto: “In casa di riposo non ci vado. Mi dovete mettere le manette, sennò non vengo!”. E dopo il forzoso ricovero (si capisce al volo anche questo) “effettuato a suo vantaggio”, risuona ancora il suo ultimo grido: “Voglio la mia libertà che mi avete sottratto!”. La sua vicenda spesso ci procura brutti sogni notturni. Malgrado tutti i particolari della sua disgraziata avventura (documenti inclusi) siano accessibili tramite registrazioni e foto, reperibili anche sul web, la “verità giudiziaria” se ne discosta enormemente. C’è chi è stato ingiustamente condannato e chi è stato denunciato per il reato di diffamazione. I cugini del vecchio professore, che da un anno vive senza telefono, completamente isolato, senza il conforto di amici e parenti, del quale non si conosce più neanche lo stato di salute, si sono rivolti alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. Come finirà? Le istituzioni europee hanno perduto quello smalto con cui ai loro albori venivano presentate ai cittadini dei vari paesi dell’U.E. e la giurisdizione italiana ha toccato il punto più basso della sua traiettoria (parabolica?).

giudice

A molti, specialmente se giuristi, non sarà sfuggito come sono diventati elastici persino i primi dodici articoli che contraddistinguono l’essenza della Costituzione. Tali “principi fondamentali” definiscono le caratteristiche di fondo dell’ordinamento nazionale: forma repubblicana, sistema democratico, riconoscimento dei diritti umani, affermazione del principio di uguaglianza, centralità del lavoro, principio di autonomia. Il nostro punto di vista è che il green pass (ritenuto dall’ex premier Romano Prodi frutto del genio italiano) collide con gli articoli 1,3 e 4 del dettato costituzionale perché rende ineguali i cittadini e, nel contempo, rende chi ne è privo impossibilitato a lavorare. La cosa ci appare fin troppo evidente, eppure diversi TAR hanno respinto le istanze presentate da alcuni lavoratori (inclusi professori, medici e paramedici). Tra le varie argomentazioni fornite dai giudici amministrativi, in un caso, si afferma pure che i vaccini hanno superato la fase della sperimentazione. Miracoli dei nostri governanti che, in quanto dotati di una “macchina del tempo” come Alexander Hartdegen, si sono proiettati nel futuro per ottenere riscontri sull’efficacia e sui possibili danni che determinati vaccini potrebbero produrre alla persona negli anni a venire.

In ogni caso osserviamo un agire pilatesco là dove i giudici scrivono che il legislatore ha previsto in via alternativa al green pass la produzione di un test molecolare o antigenico rapido con risultato negativo al virus. Succede proprio di tutto. Non possiamo più meravigliarci di nulla. Solo en passant ci soffermiamo sulla condanna erogata all’ex sindaco di Riace (che non conosciamo direttamente, ma ben conosciuto, da una persona a noi molto cara, come individuo non sicuramente avvezzo a rubare). Qualcuno sta aspettando le motivazioni della sentenza prima di sbilanciarsi nel valutare i 13 anni e 2 mesi di pena inflittagli. Noi invece facciamo una considerazione grossolana e riteniamo che l’entità della condanna è fuori dell’accettabile. Se mai servisse ripeterlo, è notorio che in questo Paese, alcuni magistrati, prima decidono il da farsi, poi identificano e scrivono le motivazioni, dopo magari leggono o cambiano di posizione nel fascicolo alle eventuali memorie delle parti, del “reo” o del suo avvocato difensore. Nel mondo antico e medievale l’ufficio del magistrato, ovvero la carica pubblica, individuale o collegiale era in genere di carattere elettivo e circoscritta nel tempo. Nelle città greche il magistrato era un comune cittadino. Nelle oligarchie era tratto dalla classe dominante, nelle democrazie era scelto tra tutti gli uomini liberi, per elezione, per sorteggio o per una combinazione dei due sistemi. Nelle oligarchie l’incaricato esplicava le sue mansioni gratuitamente; nelle democrazie quasi tutte le magistrature comportavano un piccolo onorario. Nelle amministrazioni comunali greche del periodo ellenistico-romano i magistrati, in genere facoltosi, prestavano i loro servizi rinunciando alle spettanze cui avrebbero avuto diritto.

anziana

A Roma si ebbero in origine solo magistrati patrizi, poi divennero magistrati anche i capi della plebe, da questa eletti: i tribuni e gli edili plebei. La maggior parte delle cause penali era affidata ai pretori e si svolgeva nel Foro e nelle aule giudiziarie adiacenti. Il senato si occupava dei crimini più gravi come l’alto tradimento. Fino alla tarda età repubblicana bastava la semplice volontà del magistrato per condannare a morte qualcuno. L’imputato poteva opporsi a questa decisione tramite la “provocatio ad populum”, letteralmente un “ricorso al popolo” che, limitando l’eccessivo imperium del magistrato, bloccava il suo giudizio e rinviava tutto ai comizi centuriati, che decidevano al suo posto. I reati contro lo Stato erano sottoposti ai “iudicia populi”, i “giudizi del popolo”, ovvero processi svolti davanti ai comizi e in cui il magistrato era sia giudice sia accusatore. A partire dalla metà del II secolo a.C., in un clima di marcate inquietudini politiche e sociali, i giudizi popolari furono rimpiazzati dalle “quaestiones perpetuae”, “tribunali permanenti” che dovevano garantire processi più equi e avevano compiti specifici relativi ad assassini, avvelenamenti, violenza pubblica e privata, brogli elettorali e malversazione. Il diritto di essere giudicato attraverso un processo giusto ed equo era una necessità presente tanto nel mondo antico quanto lo è in quello attuale, dove da troppi anni la percezione di un’amministrazione giudiziaria adeguata è carente ed è fonte di disorientamento diffuso. Nessun avvocato è più in grado di fare un pronostico verosimile su un procedimento giudiziale. La parola “giustizia” fa accapponare la pelle sia sotto il profilo analitico che su quello pratico. Questa sensazione la prova principalmente chi pensa alla giustizia come ad un ordine superiore, indefinibile, difficilmente esprimibile con modelli normativi, dove però non si può non tenere conto della globalizzazione e della massificazione.

È certo che la risposta delinquenziale di una toga, l’omertà di una sezione di tribunale, la boria di un giudice onorario, la prepotenza di un magistrato corrotto, l’insolenza di un pubblico ministero, l’infima professionalità di un relatore, una giustizia apparentemente “random”, sono così destabilizzanti da assicurare l’alea avvilente e “mortale” a cui sono condannate le masse per volere dei padroni del vapore. Non possono essere frutti del caso vicende giudiziarie che si ripetono con cadenza regolare, ora imputabili alla trascuratezza, ora all’arbitrio, ora alla complicità, ora ad una qualche ideologia tossica, ora alle guerre intestine della magistratura, alle quali nessuno mette riparo, pure se certi eventi, a volte persino reati, sono di pubblico dominio. Ma come può accadere che quando si inoltrano certe denunce scatta sempre l’identica rappresaglia nei confronti di chi denuncia? Da nord a sud, senza dimenticare le isole, si manifesta il medesimo imprinting a Cagliari, a Lecce, a Civitavecchia o a Lecco. Il Consiglio Superiore della Magistratura, così come si è stabilizzato negli anni, non serve ai cittadini, anzi causa loro dei disservizi per il suo rafforzato modus operandi (Luca Palamara docet). La legge n. 420/1998 non garantisce sufficiente terzietà nelle azioni che dovrebbero perseguire infine dei colleghi, ma di un altro distretto. Il giudice deve diventare effettivamente responsabile in solido dei propri “errori”. Il referendum sulla giustizia non può essere considerato la soluzione di tutti i problemi che affliggono la magistratura. Il garantismo con andamento sinusoidale non è contemplato dalla Costituzione. I propositi di rivincita degli esecutivi, se e quando mai si concretizzassero, non saranno mai forieri di una sostanziale Giustizia. Lo stesso dicasi di tutte azioni rancorose portate avanti nelle procure della Repubblica. La situazione della giurisdizione nel suo complesso appare peggiore dell’epoca in cui i magistrati erano tali solo occasionalmente e per periodi prefissati. Ad esempio, in quel tempo, tutti i condannati potevano avvalersi della “provocatio ad populum”. Questo diritto non fu applicato al caso di Catilina e dei suoi congiurati, che furono giustiziati senza processo e senza fare ricorso ai comizi centuriati su richiesta di Cicerone, né durante le lotte tra Mario e Silla. Gli Italiani di oggi, sotto il cielo plumbeo di quella che si palesa ogni giorno di più come una monarchia assoluta, mentre la Tv e l’informazione mainstream propinano soltanto i refrain graditi al monarca, a chi dovrebbero appellarsi per coltivare ancora la speranza di ottenere decisioni giudiziarie tempestive e non inficiate da diverse variabili non compatibili con il diritto?



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