Chi ha seguito fin dall’inizio le vicende legate al conflitto tra Russia e Ucraina dovrebbe aver già sentito nominare Lyudmila Denisova. Fino a poco tempo fa rivestiva l’importante ruolo di commissaria per i diritti umani nell’ambito delle istituzioni ucraine. Con lo scoppio della guerra, la sua figura è diventata di primo piano per il compito che si era assunta di diramare periodici report sulle atrocità che avevano luogo all’interno del territorio del suo paese, con un’ovvia e particolare attenzione per quelli commessi dalle forze armate russe. In breve tempo la Denisova è diventata un punto di riferimento assoluto, la fonte accreditata di massima eccellenza per l’ampio circo dei mass-media occidentali, che per molte settimane hanno rilanciato e amplificato al massimo il contenuto dei suoi report ufficiali ma anche delle sue esternazioni più informali (ad esempio sul suo canale Telegram). Se non che una settimana fa il parlamento ucraino l’ha sfiduciata e rimossa dal suo incarico, con la seguente motivazione: «ha fallito i suoi doveri di garante. Qualche volta ha diffuso fatti che sono apparsi molto poco verosimili e informazioni di cui non conosciamo la fonte».
Un’accusa grave per una professionista con una posizione così importante, che per altro nel corso del tempo aveva denunciato terribili atrocità, con una particolare attenzione al tema degli stupri che i soldati russi avrebbero perpetrato un po’ verso tutti indistintamente, bambini compresi. «Due ragazze di 12 e 15 anni sono state violentate da razzisti, una bambina di 6 mesi è stata violentata da un russo con un cucchiaino…», pubblicava sul suo canale Telegram il 23 maggio, senza citare alcuna fonte e senza temere che comunicazioni così estreme, al limite del grottesco, potessero sollevare dubbi. D’altra parte la Denisova vedeva costantemente le proprie esternazioni recuperate, riportate e ulteriormente drammatizzate dai media occidentali, dunque perché preoccuparsi di citare fonti precise o di mantenere i contenuti entro i limiti della logica e della ragionevolezza? Il fatto è che tirare la corda sulle falsificazioni è sempre rischioso: quando non è il diffamato a smentirti prove alla mano, arriva sempre la realtà dei fatti, che è ancora più spietata. Il regime di Kiev alla fine ha compreso che l’andazzo innescato dalla Denisova, con tutto il battage che ne conseguiva in occidente, si sarebbe schiantato contro la realtà dei fatti e il facile debunking russo, diventando controproducente se non addirittura autolesionista. Da qui la sua rimozione.
Almeno in Ucraina quelle così le rimuovono.
Al di là delle facili ironie sulla “superiore caratura morale delle donne al potere”, quello che stupisce di tutta la vicenda è il fatto che la Denisova non abbia protestato per la rimozione, né abbia difeso il suo operato. Subito ha optato per il silenzio, forse in attesa che si sgonfiasse l’attenzione mediatica su di lei, per poi uscirsene ieri con una candida ammissione, naturalmente irreperibile sui grandi media italiani: «Forse ho esagerato», ha detto, «ma cercavo di raggiungere l’obiettivo di convincere il mondo a fornire armi e mettere pressione alla Russia». Sotto questa luce la condotta della Denisova ha un grande valore simbolico. È infatti una condotta standard a più livelli. Il primo, più superficiale, riguarda la menzogna, l’invenzione di sana pianta di scenari emergenziali inesistenti o, quando va bene, la drammatizzazione di situazioni in realtà normali o fisiologiche. Questa metodologia è il marchio di fabbrica della comunicazione e del modo di far politica tipico occidentale, che trova la sua migliore espressione nella comunicazione pubblica relativa alle relazioni tra uomini e donne. Quanto fatto dalla Denisova non ha un DNA diverso dagli strilli isterici di “Non una di meno” per gli apprezzamenti degli alpini, per intenderci. La radice della malapianta è la stessa: in un caso la menzogna serve per identificare nei russi il “cattivo”, ruolo che nell’altro caso viene riservato a tutto il genere maschile indistintamente. Una Lyudmila Denisova, per fare un altro esempio, l’abbiamo ben vista in azione di recente a Fairfax, in Virginia, trascinata sul banco degli imputati dall’ex marito Johnny Depp e poi condannata. E le firme di donne come la Denisova abbondano nelle oltre 70 mila denunce, farlocche nel 90% dei casi, di violenza che vengono ogni anno depositate in Italia da donne contro uomini. Non è insomma soltanto lo scivolone di una carica istituzionale ucraina. Esiste, potremmo dire, una Denisova state of mind, che inquina e avvelena i pozzi della normale relazionalità uomo-donna in tutto l’occidente, con l’aperta complicità dei media di massa, che si nutrono di questo tipo di mistificazioni e assumono il compito sistemico di amplificarle.
E a ben guardare, a un livello più profondo, c’è un altro meccanismo comune. La Denisova non ha inventato notizie inesistenti solo per mera spinta ideologica, perché odia i russi o perché amava la ribalta. Certo c’è anche tutto questo, ma l’obiettivo reale è quello da lei ammesso, molto concreto: ottenere più armi per il regime di Kiev e mettere pressione al nemico russo. La mistificazione della realtà operata dalla Denisova e da tutte le sue tante (troppe) sorelle sparse per tutto l’occidente non è mai finalizzata soltanto a una spinta interiore di carattere ideologico, ma ha sempre obiettivi concretissimi. La Heard intendeva consolidare la propria immagine e arricchire il proprio conto in banca devastando la vita dell’ex marito; le tante che firmano false accuse mirano alla casa familiare, ai figli, all’assegno e non di rado alla vendetta contro l’ex. Su un piano più politico, l’utilizzo della stessa mistificazione è alla base di meccanismi di spartizione di potere e denaro. Le “armi” e “la pressione” che la Denisova voleva ottenere con le sue falsità, per le bugiarde e mistificatrici dell’ampio campo femminista occidentale diventano l’accesso nelle scuole e nei tribunali, l’ottenimento di fondi per associazioni o comitati ideologicamente affini, l’elezione a cariche pubbliche, il raggiungimento di ruoli apicali e tanto altro ancora. «Una donna uccisa ogni tre giorni», «una violenza di genere ogni 15 minuti» e altre baggianate similari sono la versione nostrana delle menzogne della Denisova. Con una differenza cruciale: in Ucraina comprendono che persone del genere portano soltanto danno e per questo vengono rimosse. Da noi vengono nominate ministro, elette deputate o senatrici, messe a capo della redazione in qualche testata nazionale, premiate dal Presidente della Repubblica, graziate o favorite nei tribunali, o elevate al rango di opinion maker nazionali.