Nell’ultimo intervento mi chiedevo perché l’universo maschile fosse per le femministe così importante. Nei loro scritti spiegano agli uomini come sono, come non sono e come dovrebbero essere, dagli aspetti più insignificanti fino al modo di scopare, al tipo di sesso da fare o al modo di orinare, in piedi, seduti o in ginocchio. Lo spunto me l’aveva fornito la femminista Beatriz Gimeno, che esortava gli uomini a cambiare le loro pratiche sessuali, a ricavare il piacere a suo dire nella zona erogena maschile per eccellenza: l’ano. Questo protagonismo maschile (in negativo) nei testi femministi non è una novità. Già dalla prima dichiarazione, la Dichiarazione dei sentimenti (1848) di Seneca Falls, pietra miliare nella storia femminista, l’uomo è il protagonista assoluto. Lei (She) e i suoi diritti non sono l’oggetto della dichiarazione, ogni punto della dichiarazione inizia con Lui (He) e serve a elencare le sue colpe. Parimenti l’inno femminista francese all’epoca La Marseillaise des cotillons, 1848, non può non mettere in primo piano «l’uomo, quel despota selvaggio», con l’esplicito invito a «picchiarlo». Oggi l’inno femminista più di moda è Un violador en tu camino, che ha il seguente ritornello «lo stupratore sei tu»; chi è il protagonista dell’inno, l’uomo o la donna? La vittima o il carnefice? Il protagonista sei tu.
È molto significativo l’inizio della “Bibbia” del femminismo, Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, da leggere con attenzione: «La donna? è semplicissimo – dice chi ama le formule semplici: è una matrice, un’ovaia; è una femmina: ciò basta a definirla. In bocca all’uomo, la parola “femmina” suona come un insulto; eppure l’uomo non si vergogna della propria animalità, anzi è orgoglioso se si dice di lui: “È un maschio!”. La parola “femmina” non è un peggiorativo perché colloca le radici della donna nella natura, ma perché la imprigiona nel sesso, e tale sesso appare al maschio spregevole e nemico perfino nelle bestie innocenti, a causa dell’inquieta ostilità che la donna suscita in lui; perciò vuol trovare nella biologia una giustificazione a codesto sentimento. La parola “femmina” sommuove in lui una sarabanda di immagini; un enorme ovulo rotondo sta in agguato e mutila l’agile spermatozoo; la regina delle termiti regna, tronfia e mostruosa, sui maschi da lei soggiogati; la mantide religiosa, il ragno femmina, sazie d’amore, stritolano il loro compagno e lo divorano; la cagna in calore va in giro seminando odori perversi; la scimmia si esibisce con impudenza e fugge con ipocrita civetteria; e le fiere più superbe, la tigre, la leonessa, la pantera soggiacciono servilmente all’imperiale stretta del maschio. Inerte, impaziente, scaltra, stupida, insensibile, lubrica, feroce, umiliata: il maschio proietta sulla donna tutte le femmine della natura. E lei è una femmina». Non è favoloso? L’inizio del più importante testo femminista, invece di parlare delle donne, parla degli uomini, spiega cosa pensano, sentono e provano, entra nelle loro teste e li colpevolizza. Come Simone de Beauvoir, anche la più nota femminista italiana, Carla Lonzi, nell’opera Sputiamo su Hegel: «L’uomo è involuto in se stesso, nel suo passato, nelle sue finalità, nella sua cultura. La realtà gli sembra esaurita, i viaggi spaziali ne sono la prova». La letteratura femminista abbonda di brani simili che spiegano (in negativo) come sono gli uomini, cosa pensano.
Possibile che le femministe non possano fare a meno di occuparsi degli uomini?
«Comunichiamo solo con donne», scrive Carla Lonzi nel manifesto Rivolta Femminile. Ma ciò non l’esime di iniziare e di finire il manifesto parlando degli uomini. Bisogna arrivare fino al decimo punto del manifesto per non vedere più citato l’uomo. «(1) La donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà. (2) L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo di scoperta di sé da parte della donna. (3) La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli. (4) Identificare la donna all’uomo significa annullare l’ultima via di liberazione. (5) Liberarsi per la donna non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell’esistenza. (6) La donna come soggetto non rifiuta l’uomo come soggetto, ma lo rifiuta come ruolo assoluto. Nella vita sociale lo rifiuta come ruolo autoritario. (7) Finora il mito della complementarietà è stato usato dall’uomo per giustificare il proprio potere. (8) Le donne son persuase fin dall’infanzia a non prendere decisioni e a dipendere da persona “capace” e “responsabile”: il padre, il marito, il fratello… (9) L’immagine femminile con cui l’uomo ha interpretato la donna è stata una sua invenzione». Ecco la fine: «(X) Non riconoscendosi nella cultura maschile, la donna le toglie l’illusione dell’universalità. (X) L’uomo ha sempre parlato a nome del genere umano, ma metà della popolazione terrestre lo accusa ora di aver sublimato una mutilazione. (X) La forza dell’uomo è nel suo identificarsi con la cultura, la nostra nel rifiutarla. (X) Dopo questo atto di coscienza l’uomo sarà distinto dalla donna e dovrà ascoltare da lei tutto quello che la concerne. (X) Non salterà il mondo se l’uomo non avrà più l’equilibrio psicologico basato sulla nostra sottomissione. (Ometto i due ultimi punti del manifesto, che non menzionano l’uomo)».
Ma è possibile che queste donne non riescano a comporre canzoni o a fare un elenco di richieste senza nominare gli uomini di continuo? Facciamo un tentativo. Elenco nove punti di richieste dell’homo masculus patriarcalus: 1) vogliamo belle donne e arrapate; 2) vogliamo birra; 3) vogliamo l’abbonamento gratuito di premium Tv per le partite di calcio; 4) vogliamo stare con gli amici; 5) vogliamo crescere i figli; 6) vogliamo una cassa degli attrezzi per costruire quel che ci viene voglia; 7) vogliamo una canna da pesca, un albero sotto il quale schiacciare un pisolino e una barca (opzionale); 8) vogliamo una moto e un cane; 9) vogliamo il silenzio per riflettere. Ecco, non era così difficile, le donne nominate solo una volta. Adesso elenco gli stessi punti in modalità “femminista”, tipo Dichiarazione dei sentimenti, cioè colpevolizzante: 1) le donne reprimono la nostra vita sessuale; 2) le donne ci limitano la birra; 3) le donne ci censurano il calcio; 4) le donne ci impediscono di stare con gli amici; 5) le donne ci sottragono i figli; 6) le donne non ci permettono di sviluppare i nostri progetti; 7) le donne non ci lasciano in pace; 8) le donne ci condizionano a soddisfare materialmente i loro desideri; 9) le donne ci torturano con le loro lagne. Percepita la differenza?
Forse un vaffanculo sarebbe più appropriato.
Infatti, che necessità aveva la scrittrice femminista Charlotte Perkins Gilman di inserire gli uomini nel suo romanzo utopico/distopico Herland (La Terra di Lei) del 1915, addirittura di cedere a loro il protagonismo, se non quello di poter stabilire un termine di paragone tra un modello riprovevole e l’altro da divinizzare, la donna? Se vuoi scrivere un’utopia di solo donne, scrivi un’utopia di solo donne! Nel classico dello scrittore Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca, in barca vanno… tre uomini (e un cane)! Non c’è bisogno di inserire donne. Che necessità ha la scrittrice Christine de Pizan di rivolgere la sua opera, la Città delle dame (1405), fortezza di solo donne virtuose, agli uomini? Perché deve fare la ramanzina agli uomini all’inizio del libro? Queste opere non vengono scritte per il piacere femminile della creazione artistica, per il godimento dei lettori e, soprattutto, delle lettrici; lo scopo principale è quello di colpevolizzare l’uomo attraverso il rimprovero morale.
Le femministe non vogliono gli uomini tra i piedi, ma sono sempre nei loro pensieri (in negativo). Le continue campagne contro la “mascolinità tossica” ne sono la prova: la figura maschile è onnipresente. La domanda che pongo è sempre la stessa: se il femminismo è “parità”, come viene ripetuto a destra e a manca, cosa c’entra tutto questo con la parità? L’avevo già scritto tempo fa in un altro intervento, L’uomo è indegno di essere preservato, che vi invito a rileggere: «Se il femminismo si occupa solo della “lotta per i diritti delle donne”, perché sono fissate con la mascolinità? Perché finanziano studi, organizzano corsi e conferenze, scrivono libri a questo proposito? Perché ci vogliono cambiare? Perché ci rompono dalla mattina alla sera? Cosa c’entrano i loro diritti con la mia presunta natura orgogliosamente tossica? Perché continuano a colpevolizzarci? Cosa c’entrano i loro diritti con le nostre colpe?» L’ho già detto e lo ripeto, l’elemento che contraddistingue il femminismo, ideologia che sostiene l’oppressione storica e attuale delle donne per mano degli uomini in un sistema denominato patriarcato, è la seconda parte del binomio, la colpevolezza maschile. La figura maschile assume il protagonismo nell’universo femminista perché la sua dottrina ha bisogno di un nemico, è il suo humus. Senza il nemico, senza l’oppressore, senza il misogino patriarcale, senza il colpevole, la prima parte del binomio non esiste, il femminismo non esiste, non esistono né oppresse né vittime. C’è un proverbio spagnolo che dice: «Cuando Juan habla mal de Pedro, dice más de Juan que de Pedro» (quando Giovanni parla male di Pietro, dice di più di Giovanni che di Pietro). È così. Simone de Beauvoir afferma «il maschio proietta sulla donna». Sbagliato, l’accusa va ribaltata. Quando Simone de Beauvoir e tutte le altre autrici femministe scrivono sugli uomini, stanno parlando di loro stesse, stanno proiettando sugli uomini quello che loro detestano in loro. Vorrei poter dire alle femministe di lasciarci in pace, di farsi cazzi loro. Ma come fa una femminista a farsi cazzi suoi? Forse un vaffanculo sarebbe più appropriato, ma non so se Beatriz Gimeno sarebbe d’accordo.