La Repubblica, sempre puntualissima su queste cose, giovedì scorso dava notizia di una ricerca svolta per la prima volta in ambito accademico in Italia sul “femminicidio”. Un gruppo di ricerca del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino, guidato dalla professoressa Georgia Zara, ha preso in esame «330 casi di femminicidio avvenuti a Torino e dintorni tra il 1970 e il 2020», con lo scopo dichiarato di verificare se esistono situazioni ricorrenti che permettano di pensare «misure d’intervento informative e preventive». Nobili intenti, ma campo minato. Perché se a parlare di “femminicidio” è qualche associazione femminista o qualche imbrattacarte del mainstream, ci può anche stare, per quanto sia spregevole, che si giochi sull’opacità assoluta della definizione del fenomeno. Se però entra in ballo la ricerca accademica, va da sé che l’oggetto dell’analisi vada definito con estrema precisione. Visto che la “Commissione Femminicidio” non ci risponde, in merito, e visto che il numero di definizioni diverse del fenomeno è arrivato a circa undici, speravamo che l’Università di Torino avesse trovato finalmente la quadratura del cerchio. Per questo abbiamo letteralmente divorato l’articolo di Repubblica.
Tuttavia siamo rimasti delusi. L’articolo non menziona quale definizione di femminicidio abbia adottato il gruppo di lavoro della professoressa Zara, sempre che ne abbia adottato uno. E cercare di desumerlo dagli esiti della ricerca fa cadere nel solito cul de sac. Ribadiamo: un fenomeno delittuoso può definirsi o per il movente o per la tipologia dell’autore. Per ragioni meramente logiche le due scelte sono alternative, a meno di non voler dimostrare l’esistenza di un micro-fenomeno o di una macro-persecuzione. La Polizia di Stato nel 2018 ha scritto che il “femminicidio” è tale per il movente: quando una donna viene uccisa “in quanto donna”. Altri, senza l’ufficialità del Viminale, invece fanno dipendere tutto dall’autore: uomo, marito, ex marito, fidanzato, ex fidanzato, e via via ad ampliare comprendendo zii, cugini, amici, conoscenti, a seconda delle convenienze. Cosa fa la ricerca di cui parla l’articolo? Il solito: un po’ e un po’, con un guizzo di fantasia davvero notevole. In sostanza, si dice, i casi studiati sono “femminicidio” perché gli autori sono uomini (criterio n.1) mentre il movente di genere (uccisa “in quanto donna”) influisce solo sull’efferatezza del delitto (criterio n.2). Cioè se Gino ha ucciso Gina, ed era solo un conoscente, è già femminicidio. Che l’abbia ammazzata con o senza particolare ferocia, dipende dal movente “di genere”.
Entrare troppo nei dettagli metteva a rischio l’allarmismo.
Restiamo ammirati da questa chiave di lettura, con il relativo concetto immancabilmente anglicizzato dell’overkill, e attendiamo le conferme accademiche dell’assunto. Veniamo però subito delusi: «il campione della ricerca includeva donne prostitute», dice l’articolo. Un attimo però: così si finisce su tutt’altro campo. Può indubbiamente capitare che una prostituta venga uccisa da un cliente invaghito che non vuole più che lei si dia ad altri, ma nella maggior parte dei casi le prostitute finiscono la loro vita violentemente a causa di questioni di soldi (come il recente caso di Aosta, ovviamente comunque classificato come “femminicidio”) o di malavita. Roba che nemmeno sforzandosi ha a che fare con il “femminicidio”, anche se l’autore è un uomo. Poco dopo altro disincanto: la ricerca include anche i delitti tra sconosciuti. Ma come, valgono pure quelli come “femminicidio”? Non si era detto all’inizio che si consideravano soltanto i delitti commessi da uomini in qualche misura vicini alla vittima? Sì, si era detto così. Il problema è che i conti non tornano. I numeri rilevati non dicono ciò che si vorrebbe, nonostante le torture a cui vengono sottoposti, il concetto dell’overkill rischia di non reggere, e allora ci si infilano dentro anche i delitti tra sconosciuti. Così si ottiene una suddivisione del campione di questo tipo: nel 53,8% dei casi vittima e carnefice avevano una relazione intima, nel 37% erano semplici conoscenti, nel 9,2% erano reciprocamente sconosciuti. Mentre è scarsamente probabile che un conoscente uccida per misoginia, istinto di possesso, gelosia morbosa, eccetera, è del tutto impossibile che quei moventi abbiano mosso la mano omicida degli sconosciuti. Dunque “femminicidi de che?”, come direbbero a Roma.
Ci spiegano poi dall’Università che quei delitti risultavano più feroci ed efferati nella loro esecuzione con un’incidenza di quattro volte superiore quando vittima e carnefice si conoscevano rispetto a quando erano sconosciuti, tasso che aumenta ancora nel caso delle prostitute. Da ciò la grande scoperta: le donne che si vendono per strada sono «la categoria più esposta a delitti commessi con eccessiva violenza ed efferatezza». Ma dai! In realtà lo si può dire anche per i clochard uomini, ma allora cade l’obiettivo di vittimizzare le donne e criminalizzare gli uomini, quindi dimentichiamo i barboni… Non è spiegato poi cosa si intenda per maggiore violenza ed efferatezza. Trattandosi di un’università ci si può immaginare che abbiano fissato una sorta di scala graduata tipo: da una a due coltellate, tasso di efferatezza 5; da tre a quattro, tasso 4; da cinque a sei, tasso 5; raddoppio del coefficiente se l’assassino ha tagliato un orecchio al cadavere e se l’è portato via con sé, e così via. In ogni caso l’articolo, ansioso com’è di confermare un allarmismo nazionale, non parla di nessun tipo di criterio. Entrare troppo nei dettagli forse metteva a rischio la possibilità di titolare il pezzo con «Mariti, amanti o amici. Ecco chi uccide le donne» e avrebbe dato meno risalto ai numeri apparentemente impressionanti come “330 femminicidi”.
Che questa fuffa la dica anche l’Università preoccupa e non poco.
Questa propaganda è possibile perché non esiste una definizione codificata di “femminicidio”, che continua ad essere come un cubo di Rubik: ora vedi la facciata verde, poi arriva qualcuno che smanetta un po’ e la vedi gialla, oppure rossa, oppure un mix di tutti i colori. E non c’è verso di vedere tutte le facce di un colore unico e ben definito. Può anche essere vero che a uccidere le donne siano mariti, amanti o amici, ma si tratta di un dato irrilevante finché non si comprende il movente dell’omicidio, o meglio: finché non si trova una caratterizzazione univoca e specifica che renda riconoscibile in modo assoluto il “femminicidio”. Questo è il principio a cui si sfugge per far passare qualsivoglia atto omicidiario, commesso da chiunque e per qualunque motivo come un atto commesso da alcune persone particolari e per un motivo specifico di natura ideologica (uomini che uccidono una donna “in quanto donna”). Sono due piani che però non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro. E che, come detto, si possono sovrapporre solo per misurare un microfenomeno (i 30-40 “femminicidi propriamente detti” all’anno) o per suggerire che ci sia in atto una vera e propria persecuzione di massa da parte degli uomini (tutti) nei confronti delle donne (tutte). Cosa destituita di ogni fondamento.
Va detto che però, stavolta, lo scenario è molto più preoccupante del solito. Non siamo più al gruppetto di femministe idrofobe o a qualche giornalucolo mainstream, stavolta siamo sul piano accademico. Manco a farlo apposta, ultimamente abbiamo avuto a che fare parecchio con le università e il loro modo di intendere gli studi di genere, e più si scava più si trova una mancanza di serietà e di rigore, una malafede, un ideologismo radicale così profondi da mettere davvero in allarme. Non cinquant’anni fa, ma soltanto dieci-quindici anni fa nessuna facoltà italiana si sarebbe azzardata a fare uno studio come quello del Dipartimento di Psicologia di Torino, su un fenomeno non definito né definibile e mettendo insieme casistiche così general generiche da far sorgere una legittima domanda: se valgono tutti i tipi di omicidi commessi da chiunque, includendovi anche l’ambito malavitoso della prostituzione, perché non fare uno studio parallelo anche sugli omicidi di uomini che da sempre sono il doppio di quelli delle donne? Risposta: perché sono più gli uomini che uccidono donne delle donne che uccidono gli uomini. Questa è la prospettiva di genere: la domanda non è “chi viene ucciso di più”? Non è nemmeno “chi è più frequentemente autore di omicidio?”. No, la domanda è: “chi uccide di più chi?”. Una domanda faziosa oltre che scientificamente irrilevante, come tutte quelle che hanno uno scopo puramente ideologico: serve solo a individuare un sotto-sotto-sotto gruppo minimale da enfatizzare per rappresentarlo come gigantesco. È il solito meccanismo: criminalizzare tutti gli uomini ipotizzando che stiano congiurando in una persecuzione calcolata a danno di tutte le donne. Che questa fuffa la dica anche l’Università però preoccupa e non poco.