Lasciateci essere “maschiacci”, per una volta. E lasciateci dire che un uomo capace di conquistare e mettersi in casa una donna come Lilia Sudakova, top model russa, sublimamente bella come solo le russe belle sanno essere, potrebbe anche dirsi eternamente soddisfatto. Suo marito Sergeij Popov, invece, pare non fosse di questo avviso. Una sera si ubriaca insieme all’amante, la porta in casa e chiede alla moglie di cucinare per entrambi. Cosa sia accaduto dopo lo si sa solo per la ricostruzione della bella Lilia: ha dichiarato che a fronte del suo rifiuto il marito l’abbia aggredita a calci e tirandole i capelli. Al che ha reagito afferrando un coltello e pugnalando più volte l’uomo fino a ucciderlo. La notizia ha fatto il giro del mondo, non perché abbia chissà quali caratteristiche peculiari, ma semplicemente perché i protagonisti sono per l’appunto una top model e un tizio dal comportamento inspiegabile.
La circolazione globale della notizia ha dato l’occasione una volta di più per riscontrare quanto radicalmente diversa sia la chiave di lettura con cui l’opinione pubblica interpreta fatti di sangue come questi a seconda del genere che agisce o subisce. Ci siamo fatti un giro sui media, i siti e i social italiani, anglofoni, spagnoli, francesi e tedeschi: i riscontri sono stati gli stessi ovunque. Unica eccezione rilevata è stata sui media russi, dove il fatto è trattato come un ordinario evento di cronaca criminale e i commenti sono improntati a una certa normalità: lui, uno stronzo e decisamente un coglione; lei, una criminale che merita il carcere. E in Russia Lilia Sudakova in carcere andrà davvero, non è mica l’Italia. Per il resto, dal nostro lato del mondo è tutto un ampio compiacimento per il gesto della top model, in una fiera del cinismo e della contraddizione che lascerebbe di stucco se non fosse ampiamente abituale in questi casi:
Ciò che questo tipo di reazioni sottende è una contraddizione profonda. Nelle discussioni e nei dibattiti con una femminista mediamente strutturata (o con uno qualunque dei tanti cicisbei o capponi indottrinati al seguito), uno degli argomenti che salta fuori sistematicamente come prova del terribile regime patriarcale pregresso è il fatto che in Italia, fino agli inizi degli anni ’80, vigeva nel Codice Penale l’orribile “delitto d’onore”. Nel sostenere questa cosa naturalmente dimenticano che si trattava di una legge asessuata, valida per uomini e donne e come tale applicata: l’obiettivo è giocare sul fraintendimento che, orrore orrore, fosse una legge “solo per maschi”. È da notare però come un delitto configurabile come “d’onore”, se attuato da una donna, non solo non suscita la stessa spettinata indignazione, ma anzi induce a una forma di profonda soddisfazione, talvolta a una trionfale e liberatoria esultanza. “Finalmente tocca a uno di loro”, si dice, avendo come presupposto che sussista una mattanza femminile causata dagli uomini (cosa assolutamente falsa) o una sanguinosa guerra tra generi. Ma soprattutto, pur di segnare una tacca a proprio favore nel conteggio dei morti ammazzati, si dimentica l’indegnità del delitto d’onore. Così, nelle parole di molti, la bella Lilia Sudakova ha fatto bene a lavare l’onta dello sfacciato tradimento del marito Sergeij infilzandolo con un coltello da cucina. Se non andrebbe premiata, quanto meno dovrebbe andare assolta.
Non mancano tuttavia le utenti che, in tutto il mondo, evitano accuratamente l’esultanza, sapendo essere cosa indegna, e si rifugiano nel concetto di “legittima difesa”, pensando sia molto più dignitoso. In realtà è molto peggio, per due motivi, i soliti. Primo, che si sia trattata di una reazione protettiva lo dice l’assassina, mentre l’assassinato, in quanto passato a miglior vita, non può controbattere in alcun modo. Piace vincere facile, quando a finire ammazzato è un uomo, insomma: scatta come una tagliola il principio del “believe woman” (credere alle donne… che ragione avrebbe una donna di mentire?). La top model dice che s’è difesa, dunque dev’essere per forza vero. Secondo: la Sudakova riporta, così dicono i giornali, che il marito l’abbia aggredita tirandole i capelli e sferrandole dei calci. Un attacco sicuramente proditorio, un’aggressione violenta, ma niente che possa mettere a rischio la vita. Diverso sarebbe stato se Sergeij fosse stato armato in qualche modo o le avesse messo le mani al collo. Insomma esiste una proporzionalità nella legittima difesa: una ginocchiata ai testicoli, una padellata in testa, un oggetto lanciato, una gomitata nei denti, erano tante le possibilità di Lilia di rispondere all’attacco del marito che, essendo ubriaco marcio, probabilmente non godeva neppure di grande stabilità. Invece l’ha trucidato a coltellate. Ci vuole del coraggio e tutta intera la faccia tosta di chi, indottrinato dal femminismo, ritiene un’inezia la morte di un essere umano di sesso maschile per giustificare la bella Lilia sulla base della legittima difesa. Eppure così accade, con reazioni e chiavi di lettura che sono l’esatto ed estremo opposto di quanto accade quando una vittima è di sesso femminile. Tanto poco vale, per tutti, la vita di un essere umano di sesso maschile.