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Roberto Pauluzzi scrive il suo ultimo post nel suo blog poco dopo la mezzanotte del giorno in cui si toglierà la vita. Lo intitola “Ultimo atto“. E nel suo ultimo atto Roberto si ribella, e lo fa da uomo. Ecco le sue parole, dove abbiamo omesso i nomi per riservatezza, sostituendoli con XXX.
Solo per dire a quelli che leggono qui che non riesco ad essere come gli altri, ubbidienti a tutte le regole. Io, se penso di subire una ingiustizia reagisco. Non posso uniformarmi al comune modo di essere pecora. Ubbidire senza pensare, ubbidire senza lottare. No, proprio non ci sto, non riesco ad esserlo con gli argomenti tipo vaccinazioni pericolose, con la politica corrotta, con le restrizioni sanitarie ingiuste e quindi a maggiore ragione non posso esserlo con la giustizia (che io chiamo ingiustizia). Affanculo a tutti quei giudici e quei periti che con la loro incapacità, nella migliore delle ipotesi, o con la loro superbia e superiorità sentendosi degli Dei che non analizzano le cose come la giustizia vorrebbe e pretenderebbe sentenziano sulla vita altrui. Pazienza alla totale mancanza di dignità della ex moglie, del suo compagno e del loro avvocato che per fini più o meno di interessi personali mettono in piedi questa sceneggiata ma IO DALLA GIUSTIZIA CHIEDEVO DI PIÙ. Volevo essere giudicato come ogni persona ne avrebbe diritto e non con superficialità e sufficienza. Scandalosi i giudici e periti delle indagini preliminari (il GIP XXX in primis), quelli di primo grado (sanno ben loro i loro atti ignobili) a Udine, peggio quelli di Trieste che VOLONTARIAMENTE e con estremo DOLO hanno confermato la sentenza (perfino il PM non era d’accordo con i giudici, che è tutto dire). Infine la scandalosa perizia dei psicologi di Trieste XXX e XXX, totalmente falsa, distorta e mancante di osservazioni importanti che puntualmente era stata confutata dai miei legale e psicologo. Della Cassazione di Roma non ho avuto il tempo di leggere la sentenza ma con le doviziose ed esaurienti memorie menzionanti tutti gli abusi che ho dovuto subire in questi anni immagino che non abbiano nemmeno letto il fascicolo. Probabilmente a causa del Covid hanno frettolosamente confermato il secondo grado senza neanche tentare di capire. Ovviamente tutti ma proprio tutti, nel loro lardoso benessere, continueranno a dormire sonni tranquilli e a continuare a rovinare le altrui vite.
NO, IO NON CI STO!
Aveva replicato il suo addio anche su Facebook.
Il suo testo parla da sé e dice tutto ciò che in Italia migliaia di padri separati e ingiustamente accusati vorrebbero poter dire, anzi gridare a squarciagola. Sono parole pesanti, soprattutto sono parole di un uomo libero, che è tale perché ha deciso di sublimarsi in eroe, di mettere le ali. Di uccidersi. «È questo che volete?», così sembra dire Roberto, rivolgendosi a tutto intero il sistema che l’ha stritolato nella più totale indifferenza. «Ebbene, lo avrete», dice, avendo ben chiaro come si sarebbe conclusa quella sua ultima notte. Ma prima di dare la vittoria a un nemico scorretto e a più tratti infame, gli dice in faccia ciò che è. Qualche giorno fa abbiamo sbattuto sul grugno di quel sistema la responsabilità della morte di Edith, una bambina di 2 anni uccisa dalla madre. La storia di Roberto Pauluzzi è chiaramente una replica, che ci permette di far seguire allo schiaffo un manrovescio. Voi che abbiamo chiamato in causa per Edith, avete sulla coscienza anche Roberto.
La domanda però è: perché nessuno è intervenuto per salvarlo o dissuaderlo dal suo proposito? Si dirà: il suo blog non era letto praticamente da nessuno, era mal indicizzato, chi vuoi mai che si accorgesse di quell’ultimo post? Vero, ma di nuovo Roberto aveva replicato il suo addio anche sul suo profilo Facebook, nel pomeriggio, con un tono e un linguaggio che non lasciava spazio a interpretazioni.
Ringrazia tutte le persone importanti della sua vita, fa una breve riflessione su di sé, dopo di che pronuncia la parola maschile per eccellenza: dignità. Un concetto declinato in vari modi lungo la storia: lo si è chiamato onore, reputazione, rispettabilità, nobiltà, ma sempre della stessa cosa si tratta. Quel valore del sé verso di sé e verso il mondo a cui un uomo difficilmente riesce a rinunciare, la cui perdita difficilmente tollera o nasconde dietro alibi autocostruiti e cuciti su misura. È, nelle stesse parole di Roberto, quel parametro che non si può mettere in discussione. Perdere la dignità per un uomo è già morire. Ciò che lo divide dalla morte vera è solo un banale atto di volontà. Una sentenza ingiusta dopo un’accusa infamante e nove anni di calvario giudiziario è quanto di più efficace possa esserci per togliere dignità a una persona. Quando scrive quel messaggio su Facebook, Roberto è già oltre il crinale, e non ne fa mistero: «senza di essa non voglio vivere», scrive parlando della dignità. Ma siamo certi che il riferimento fosse anche alla sua amata figlia Asia. Dalle parole ai fatti: nella notte si impiccherà davanti al Teatro Nuovo di Udine.
Il suo post viene commentato affettuosamente da qualche contatto sul social network. Nessuno degli oltre 170 “amici” tuttavia sembra cogliere il senso vero del messaggio. Qualcuno alza il telefono, ma Roberto non risponde. Nessuno lo raggiunge a casa per tenerlo sotto controllo, per aiutarlo, parlare, dargli un sollievo. Purtroppo Roberto non era un lettore de “La Fionda”: non sarebbe stato il primo che recuperiamo da situazioni di disperazione e a rischio. Ma oltre a questo, che opzioni aveva Roberto? Nessuna. Non c’è un centro d’ascolto per uomini ingiustamente condannati o distrutti da una separazione. Ci sono però i “centri per uomini maltrattanti” profumatamente finanziati con soldi pubblici. Non c’è un consultorio dove puoi accedere a uno psicologo addestrato a capire il tuo profondo malessere di uomo privato di una figlia e della dignità. Ci sono però i centri antiviolenza riservati a sole donne, anch’essi profumatamente finanziati, nonché una vera fucina di false accuse e di denunce campate in aria. Chi ascolta le parole e il dolore di un uomo solo? Non “solo” perché non ha nessuno attorno ma perché qualcosa o qualcuno gli ha spianato un deserto dentro… Chi c’è in questo stramaledetto Paese ossessivamente attento alle desinenze delle parole, a una dilagante violenza contro le donne che però poi risulta ai livelli più bassi del mondo, e ai posti di vertice da riservare alle donne, che possa occuparsi di questi casi? Ve lo diciamo noi, giusto il giorno della Festa del Papà: nessuno.
L’uomo non è una bestia da macellare sull’altare di un fanatismo che sta avvelenando la società e il futuro. L’uomo è un pilastro del mondo, e l’altro pilastro è la donna. Forme perfette quando sono padre e madre. Ancora più perfette quando cooperano in concordia. A uccidere Roberto è stata una complessa e tentacolare macchina dell’odio che non smette mai di macinare vittime. Ma per la sfortuna di chi la manovra, le sue vittime talvolta lasciano un segno, una testimonianza, come ha fatto Roberto. Ogni testimonianza è una manciata di sabbia negli ingranaggi di quella macchina. Non sappiamo quanti altri morti e quante altre ingiustizie serviranno per fermarla. Sappiamo però che basterebbe che tutti gli uomini e tutte le donne saturi di questo atroce e insensato livore terroristico si facessero sentire, agissero e si unissero in un progetto comune e concorde capace di espellere gli estremismi ideologici dal discorso pubblico. La macchina dell’odio cadrebbe in pezzi da sé in pochi secondi e storie quelle quelle di Roberto diventerebbero sparute eccezioni alla regola.
In ricordo di Roberto Pauluzzi, uomo e padre – Gli autori de “La Fionda”