Colpisce molto la recente sentenza n.4281 del TAR del Lazio, relativa alla questione privacy e Green Pass. Ad adire al tribunale amministrativo sono stati quattro cittadini che contestavano nel merito il DPCM del 17/06/2021, contenente disposizioni attuative appunto relative all’entrata in vigore, uso e verifica del Green Pass. Secondo i ricorrenti, il meccanismo di contenimento dell’epidemia delineato dal legislatore nazionale comportava un pregiudizio della riservatezza sanitaria, in contrasto con la disciplina europea sulla protezione dei dati sanitari, il famoso GDPR. Insomma, l’opinione era che il meccanismo del Green Pass violasse la normativa sulla privacy. Effettivamente la certificazione verde dà delle informazioni a chi ne verifica la validità. In particolare dice che chi lo esibisce o ha avuto il covid ed è guarito, o è tamponato, o è vaccinato. Si tratta, in ogni caso, di informazioni sensibili che la normativa tutela in modo particolarmente stringente. A rilevarli e gestirli non può essere chiunque e la loro archiviazione deve seguire prassi molto severe. Di fatto però il Green Pass un po’ ovunque viene controllato da persone non titolate ad acquisire dati sensibili, a nome di soggetti (datori di lavoro, ristoratori, eccetera) che non danno certezze sul trattamento dei dati così acquisiti.
Insomma, in tutta evidenza il Green Pass è un meccanismo che, oltre a creare cittadini di serie A, detentori dei pieni diritti costituzionali, e cittadini di serie B, cui gli stessi diritti vengono negati, viola apertamente la rigorosa legge europea sulla privacy. Il TAR del Lazio però ha detto che non è così. O meglio che sì, è così, ma fa lo stesso, perché il Green Pass è un metodo regolarmente stabilito per legge con lo scopo di combattere un’emergenza di ampiezza indeterminata e di grande gravità. Acquisire le informazioni che contiene, sebbene sensibili e tutelate dal GDPR, è parte di un’azione di tutela dell’interesse nazionale, che è prevalente anche sulle normative di ordine superiore. Discutibile o meno che sia questa sentenza (e per noi lo è, e pure molto…), essa pone una questione molto rilevante rispetto ai temi che che affrontiamo giornalmente su queste pagine. Rilevante perché crea un precedente ancora più importante rispetto ad altri che avevamo già rilevato: ulteriori dati individuali sensibili, ad esempio, oltre a quelli sullo stato di salute, sono quelli relativi al proprio patrimonio, alla propria condizione giudiziaria, alle proprie convinzioni politiche o religiose. Tutte sfere su cui ognuno di noi già abdica al diritto alla riservatezza: con la dichiarazione dei redditi affidiamo allo Stato i dati sulla nostra ricchezza e il nostro patrimonio; con la nostra tessera sanitaria lo Stato sa che farmaci compriamo, che esami facciamo, se siamo stati ricoverati e per cosa; gli organi istituzionali di giustizia sanno con precisione se siamo stati denunciati, assolti, condannati o altro; le preferenze che esprimiamo nella dichiarazione dei redditi per le frazioni da assegnare a enti religiosi, partiti politici o associazioni, sebbene non per forza denotino inclinazioni individuali reali, danno comunque un’indicazione di merito, che ognuno di noi consegna tranquillamente agli organi competenti dello Stato, ovvero un ente superiore di cui si fa parte, che ci rappresenta e a cui diamo fiducia nel momento in cui prende impegno a tutelare i nostri dati sensibili.
Basta con la scusa della privacy: fuori i numeri reali.
Con il Green Pass però si fa un passo oltre, che demolisce nei fatti ogni postulato sulla privacy. Oggi è possibile, anzi obbligatorio, consegnare i propri dati sensibili (sanitari) a soggetti diversi dallo Stato, ossia a semplici privati: l’uscere che ti fa passare per andare al lavoro, il cameriere o il proprietario del ristorante o della palestra e così via. Se però ha un senso conferire i propri dati sensibili a quell’ente sovraordinato che ci rappresenta e ci riunisce (lo Stato), molto meno senso ha il via libera a consegnarli a privati sconosciuti, anche con la giustificazione dell’interesse nazionale. La verità è che la disciplina del Green Pass ha dimostrato in modo definitivo l’inconsistenza delle politiche sulla privacy e dei meccanismi per la sua tutela. Tutto questo è di grande rilevanza nella nostra ottica per un motivo molto semplice: l’alibi della privacy è quello usato da tutti i centri antiviolenza e servizi connessi (ad esempio il 1522) per poter svicolare dall’obbligo di consegnare una lista verificabile degli accessi ai loro servizi, in modo da attuare un monitoraggio preciso delle loro attività. Su questo tema i centri antiviolenza sono entrati in aspro contrasto con alcune amministrazioni regionali (Lombardia e Calabria), che avevano bandito alcune risorse riservandole soltanto a chi rispettava forti criteri di verificabilità sugli accessi stessi. Il conflitto era dovuto al fatto che su questa questione si gioca una partita cruciale. La comunicazione di dati reali e verificabili da parte dei centri antiviolenza e servizi collegati infatti è la chiave di volta per avere un dimensionamento affidabile del fenomeno “violenza contro le donne” nel nostro paese. E la rete affaristica imperniata sui centri antiviolenza non vuole che il fenomeno venga dimensionato con precisione. Sa perfettamente che se accadesse, i dati reali smentirebbero alla radice la necessità di un numero così spropositato di centri antiviolenza, come abbiamo in Italia.
Ricordate i numeri dati dal 1522 sulle chiamate di aiuto durante il lockdown? Una follia che non avrebbe retto a una minima e seria verifica di credibilità dei numeri. Un giochino ingannevole basato sulla distinzione tra “chiamate” e “chiamanti” e su un’immensità di zone grigie, rese ancora più impenetrabili dall’evidente conflitto d’interessi: un ente che vive sull’emergenza non può fornire, autocertificati, che dati emergenziali non comprovabili, ne va della sua esistenza. Nonostante questo, l’ISTAT acquisì quei numeri sovradimensionati come veri, senza alcuna verifica, rendendoli ufficiali e istituzionali. «Vanno bene così», ci risposero quando glieli contestammo sotto il profilo metodologico e di merito. Idem dicasi per le periodiche rilevazioni sugli accessi ai centri antiviolenza: centinaia, migliaia, millemilamilioni, secondo chi ha interesse a dichiararne uno sproposito. Tutto preso per oro colato e impossibile da verificare perché… per la privacy non si possono consegnare dati di dettaglio, viene risposto regolarmente. Ebbene: con il Green Pass il vincolo della privacy è stato ampiamente polverizzato con la scusa dell’emergenza nazionale. Anche quella della violenza contro le donne viene asserita come un’emergenza nazionale altrettanto grave dunque, come si è fatto con il Green Pass, si stabilisca per legge che i centri antiviolenza e servizi associati smettano di menare il can per l’aia e consegnino annualmente allo Stato l’elenco delle donne che hanno chiesto i loro servigi e di quelle che sono concretamente uscite dal disagio, dopo di che lo Stato, con la stessa riservatezza con cui tratta i nostri dati sanitari, fiscali e giudiziari, ne verifichi la veridicità, comunicando poi all’opinione pubblica le statistiche relative. Se a qualcosa può servire la pandemia, serva a stracciare il velo dell’ipocrisia per molti settori. Questa è l’occasione buona per un sano momento della verità per tutto il circuito dell’antiviolenza che, se avesse la coscienza pulita, dovrebbe per primo chiedere statistiche comprovate, in modo da far emergere davvero questa “emergenza nazionale” chiamata “violenza contro le donne”, e tappare così finalmente la bocca a chi come noi ne contesta apertamente il carattere emergenziale.