Attorno al 25 novembre scorso, data scelta non a caso, l’ISTAT ha pubblicato il suo periodico report sulle vittime di omicidio in Italia (scaricabile qui), basandosi sui dati raccolti nel 2023. Si tratta di un documento di fondamentale importanza per inquadrare correttamente il fenomeno in sé, ma anche per come viene raccontato. In questo senso il report dell’ISTAT denota perfettamente i tempi che corrono: vi si registra infatti uno sforzo disperato di continuare ad alimentare la narrazione emergenziale relativa agli omicidi di donne, ma non si può fare a meno di fare i conti con una realtà che smentisce nettamente quella narrazione. Il risultato è un documento schizofrenico, che in moltissime parti sembra acquisire (finalmente) le osservazioni fattuali che portali come il nostro portano avanti da anni, accompagnando il tutto da qualche contentino per imboccare la propaganda criminalizzante degli uomini e vittimizzante delle donne.
Qualche esempio. Il documento inizia con questa frase (corsivi nostri): «nel 2023 si sono verificati 334 omicidi (+3,7% rispetto al 2022): 117 donne e 217 uomini. L’aumento ha riguardato soltanto le vittime di sesso maschile (+10,7% rispetto al 2022), mentre le donne uccise sono diminuite (-7,1%)». Ecco che da subito la realtà dei fatti fa irruzione: la maggioranza delle vittime di omicidio in Italia, per mano di chiunque e per qualunque motivo, è costituita da uomini e le vittime femminili sono in calo. A conferma, il tasso omicidiario in Italia è dello 0,79 per gli uomini, poco meno del doppio di quello delle donne (0,39). Il tutto, è costretto ad ammettere il report, in un contesto innegabilmente positivo per l’Italia: «gli aumenti di questi ultimi due anni mantengono comunque il nostro Paese tra quelli storicamente a minor rischio. […] L’Italia dei 26 Paesi che rendono disponibili i dati per quest’anno è quello che presenta la più bassa diffusione del fenomeno». Ben svegliato, ISTAT: sono anni che noi lo facciamo notare.
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I contentini commoventi dell’ISTAT.
Ma veniamo ai contentini, che appaiono già nella prima pagina: bello grosso e in rosso l’ISTAT ci informa che nel 2023 il 35% delle vittime è costituito da donne. Consapevole che si tratta di una percentuale minoritaria includente lo strabordante contro-dato del 65% di vittime maschili, aggiunge in parentesi che negli anni ’90 le vittime femminili erano l’11% e che soprattutto gli omicidi di uomini sono diminuiti da allora. Uno sforzo quasi commovente di fare un assist alle odiatrici degli uomini: chi sa di statistica non si stupisce che sia il dato maggioritario a subire negli anni le variazioni più sensibili. Altro contentino commovente a pagina 5: «il 93,3% degli autori di omicidio è un uomo», seguito da una sbrodolata di dati per argomentare un titolo che normalmente dovrebbe suscitare come reazione un sonoro: “ma va???”. Che siano più gli uomini che le donne a esercitare violenza letale si sa da circa 600 mila anni. Capita per svariate ragioni, gran parte delle quali di natura evolutiva (vedasi qui e qui). La vera notizia a cui dedicare un intero capitolo sarebbe se le percentuali si invertissero, ma in qualche modo l’ISTAT deve fornire qualche assist ai narratori di una realtà artificiale: il peso di alcune militanti femministe nei suoi ranghi direttivi lo esige e lo ottiene ancora, a dispetto di tutto.
Il capolavoro del contentino è però a pagina 10, dove si nomina l’immancabile “femminicidio”. Questa parte è un vero esercizio di contorsionismo per cercare di dare argomenti a favore dell’emergenza che non c’è. Ecco allora che «i femminicidi stimati sono circa l’82% del totale delle donne uccise». Sì, vabbè, ma sulla base di quale definizione di “femminicidio”? Risponde testuale l’ISTAT, facendo eco al conte Lello Mascetti: «la produzione di statistiche armonizzate è un cammino complesso verso cui tendere, che richiederà tempi lunghi per avere una comparazione internazionale, anche a livello europeo». E tarapia tapioco, per dire che una definizione univoca non c’è. Anzi, dice il documento, se si va a vedere esiste una molteplicità di condizioni da considerare per capire se è “femminicidio”, cioè se una donna è stata uccisa “in quanto donna” oppure no. Ne cita nove, ma dice che ce ne sono tante altre. Insomma che per rendere analitico il fenomeno del “femminicidio” occorre spezzettarlo in una quantità infinita di circostanze, tali da invalidare ogni tentativo.
Il “femminicidio” non perviene.
Ad ogni buon conto, e per soddisfare l’esigenza ideologica di alcune minoranze rumorose, ISTAT si attesta su 96 “femminicidi” (che però definisce pudicamente “presunti”) su 117 omicidi con vittima femminile. In realtà, a una verifica veramente analitica, che potete ritrovare qui, i “femminicidi” propriamente detti nel 2023 sono stati 38. Chiaro, anche una sola vittima di omicidio di qualunque genere, per mano di chiunque e per qualsivoglia motivo, è del tutto inaccettabile, ma al di là degli aspetti emotivi e sul piano puramente analitico, stiamo parlando di un fenomeno microscopico, ben al di sotto della soglia fisiologica applicabile a una società grande e complessa come quella italiana. Sempre che, ovviamente, ci si metta d’accordo su cosa sia un “femminicidio”, cosa che, lo si tenga in memoria, nemmeno l’ISTAT è in grado di definire.