Alcune più, alcune meno, tutte le città d’Italia sono invase da manifesti femministi. Una delle più bersagliate è la povera Bologna, deturpata in taluni casi da slogan permanenti, uno più farlocco dell’altro. Dicono cose tipo: «se oggi puoi votare, ringrazia una femminista», «se oggi puoi studiare, ringrazia una femminista», e così un po’ su tutto, stendendo un lenzuolo di oblio sull’attività dei tanti uomini che hanno da un lato condiviso impedimenti spacciati per solo femminili ma in realtà riservati a tutti a prescindere dal sesso (fino a una manciata di decenni fa solo una minoranza di uomini e donne poteva studiare, votare, eccetera), dall’altro combattuto e magari dato la vita per garantire a tutti i diritti universali di base. Ma si sa: l’obiettivo di manifesti del genere non è raccontare la verità, ma alludere all’esistenza passata e presente di un regime oppressivo maschile concepito a esclusivo danno della sfera femminile, quindi tutto fa brodo, soprattutto la menzogna.
Di recente, molte città sono state tappezzate da manifesti nuovi nella loro concezione, ma sempre uguali nella mistificazione che veicolano. A promuoverli è quella che sulle prime appare come una specie di nuova associazione o nuovo movimento, chiamato “La libertà parte dalla testa”. E proprio una testa femminile è protagonista dei manifesti che circolano nelle città: capelli ampi e vaporosi in una silhouette nera dentro la quale viene inserito lo slogan: «in Italia soltanto 1 attività su 6 è guidata da una donna». Sotto la silhouette c’è un codice per connettersi al sito collegato e sotto ancora l’indirizzo del sito. Questa insistenza sull’indirizzo web ha una ragione, ma prima occorre soffermarsi sullo slogan, a cui una persona con un po’ di cervello risponderebbe subito d’istinto con: «embè?». Sì perché in Italia vige la libertà d’impresa, chiunque può aprirne una e mettervisi a capo, qualunque sia il suo sesso, dunque la pretestuosità del manifesto è evidente da subito. Il problema è che non tutti i passanti pensano con la loro testa e così il messaggio arriva dritto al bersaglio voluto: allarmismo, terrorismo. Chi lo guarda senza rifletterci (il 95% dei passanti) è portato a pensare che in Italia ci sia qualcosa, magari una forza misteriosa e sessista, che si frappone tra l’idea imprenditoriale di una donna e la sua realizzazione.
Buoni acquisto come premio.
Una sciocchezza colossale, quand’anche si riferisse alle posizioni di vertice di aziende altrui: è ben noto che non esiste alcun vincolo di carriera per le donne, a meno che non siano loro stesse a porselo con le proprie scelte. Il mercato del lavoro premia i migliori, nella maggior parte dei casi. E per le lavoratrici, nel caso la bravura non bastasse (o non fosse proprio presente), c’è pure la frequente spintarella delle quote rosa. Dunque di che vanno cianciando questi de “La libertà parte dalla testa”? Per capirlo basta andare sul sito così tanto caldeggiato dai manifesti, e lì si apre un mondo. Non c’è alcuna associazione femminista dietro l’iniziativa, ma nientemeno che la Schwarzkopf, marchio della Henkel, una multinazionale della cosmesi per donne, famosa proprio per il logo che rammenta la testa di una donna. È la Schwarzkopf ad aver ideato e aperto il sito “La libertà parte dalla testa”, dove espone il ben noto piagnisteo secondo cui la pandemia avrebbe danneggiato praticamente solo le donne che «sono state costrette a rinunciare alle proprie ambizioni per tornare a occuparsi magari solo di faccende domestiche». Già, che schifo occuparsi della famiglia, vero?
Alla Schwarzkopf la prospettiva ripugna talmente da aver finanziato la realizzazione di alcune statue provocatorie, anch’esse posizionate in diverse città, dove la donna viene rappresentata con l’aspirapolvere in mano o in altre modalità domestiche. Una sorta di gogna per chi ha deliberatamente scelto il mestiere di casa, un dileggio per chi ha perso il lavoro, una presa per il culo di chi a prescindere da tutto ama occuparsi della casa e della famiglia con cui vive. Ma così è: alla Schwarzkopf servono donne da happy-hour, donne-spritz, donne-apericena, donne-discoteca, donne sole e senza figli, ché è quella la ricetta della felicità (lo dicono anche studi appositi…). Sono loro che si fanno sciampo e balsamo, usano quintali creme, cremette e cosmetici vari. Soprattutto sono loro che, prima di usare quei prodotti, li comprano. Ecco allora tutta l’operazione mediatica, che si riduce all’iniziativa delle statue e al sito, dove la Schwarzkopf invita le donne imprenditrici a inviare un video con la propria esperienza. I video parteciperanno a un concorso: in palio, dice il sito, «buoni acquisto da € 5.000* per supportare il proprio business». Si parla di “supporto al proprio business”, quindi viene da pensare a denaro sonante da spendere in investimenti per la propria impresa o contributi a fondo perduto, ma la dicitura “buoni acquisto” e soprattutto l’asterisco fanno sorgere qualche dubbio.
Infatti l’asterisco riporta al regolamento del concorso, che specifica: «La vincitrice riceverà tramite posta elettronica il file contente i n.50 voucher da 100 € da stampare o visualizzare e spendibili in oltre 9.000 negozi in tutta Italia, in alcuni e-commerce e convertibili in Gift Card delle migliori marche sul mercato». I negozi e gli e-shop di cui si parla sono una serie di catene commerciali, elencate in un apposito sito a cui si rimanda. Tra i supporter dell’iniziativa di Schwarzkopf c’è un florilegio di grandi società di consulenza orientate al women empowerment (qualche nome: Associazione GammaDonna, SheTech, Women & Tech, Women at Business), oltre che alcuni patrocini pubblici importanti (i Comuni di Milano, Roma, Palermo). Non mancano nel sito frasette e slogan motivational tipo «l’unione fa la forza», «le protagoniste» riferito alle donne che hanno partecipato a uno showreel video molto costruito, per niente genuino, con imprenditrici tutte belle e brillanti oppure bruttarelle ma simpatiche. A corredo, una mappa dell’Italia con i contatti di chi si è già iscritta al concorso e una serie di notizie falsissime, ma utili alla causa: «il 98% di chi ha perso il lavoro a dicembre 2020 è donna» e «le donne in Europa guadagnano in media il 15% in meno rispetto agli uomini». Roba del tutto infondata, su cui Schwartzkopf evita furbamente di assumersi la responsabilità, citando la fonte della notizia (robetta come il Corriere della Sera o Euronews).
Forse l’elemento più simbolico di tutta l’iniziativa si trova scorrendo la homepage: è la foto che abbiamo posizionato qua sopra, con lo slogan «Schwarzkopf supporta l’imprenditoria femminile» seguito dalla réclame di alcuni prodotti Schwarzkopf. Lì c’è già tutto il patto d’acciaio tra consumismo e femminismo (altro che parità). Tirando le somme, infatti, cosa abbiamo? Un finto concorso per “favorire” l’imprenditoria femminile, per «supportare il business» femminile, come dichiarato. Lo definiamo finto perché il premio finale non è affatto un aiuto economico alle imprenditrici per acquistare beni e servizi per la loro azienda: in caso di vincita si ottengono banali buoni acquisto per fare shopping in determinati negozi. Non è chiaro come tutto ciò possa aiutare le imprese gestite da donne o a indurre altre donne ad aprirne. È molto chiaro invece l’utilizzo strumentale che viene fatto di un falso problema, con la connessa invasione di tutte le città di comunicazioni pubbliche allarmiste, ideologiche e indottrinanti. Dietro a un banale concorso atto a regalare a una donna 5.000 euro da spendere come vuole e nel contempo a farsi pubblicità, la Schwarzkopf impone, strumentalizzandolo cinicamente, un messaggio vittimizzante che non ha fondamento. All’ufficio marketing della multinazionale devono sapere bene che presa faccia quel vittimismo, se sposato alla propensione femminile al consumo, e per questo ci si appigliano, traendo da esso il massimo possibile. Il matrimonio tra affarismo e bugia femminista, insomma, si conferma più che mai fruttifero (come quello tra marketing e cultura queer per altro), anche se a prezzo di un avvelenamento generale dell’opinione pubblica e della società. È qualcosa che si protrae già da troppo tempo e di cui pagheremo tutti un caro prezzo in un futuro non lontano.