La Fionda

L’incidente di Picón de Jérez e l’eroismo maschile

“Mayday, mayday! Stiamo precipitando!”. Tutto accadde l’8 marzo del 1960. Avrebbe dovuto essere un bel giorno per la squadra di basket composta da 18 marines nordamericani, che tornavano alla base militare di Rota, in Spagna, dopo aver giocato una partita a Napoli. Ma tutto si trasformò improvvisamente in un incubo quando il DC4 su cui viaggiavano si schiantò, poche ore dopo aver lasciato l’Italia, contro il Picón de Jérez, nella Sierra Nevada, a 2.450 metri sul livello del mare. Il pilota era passato sopra Alicante senza problemi. Tuttavia, nel suo percorso sulla Sierra Nevada, il DC4 incontrò una bufera di neve. Una forte corrente d’aria verso il basso fece scendere bruscamente il DC4 di 400 piedi (121 m) e perse 80 nodi di velocità (148,16 km / h). Impossibile risalire, il pilota lasciò cadere dolcemente l’aereo, le eliche toccarono terra ed i motori furono danneggiati. Uno strato di neve di circa 8 metri attutì l’impatto dell’aereo contro il suolo. L’incidente provocò gambe rotte, contusioni, dolore. Tra equipaggio e passeggeri c’erano 24 persone. In totale ci furono 12 persone illese, una leggermente ferita, 4 ferite meno gravemente, 6 ferite gravemente e una ferita molto gravemente… ma nessun decesso! Era un miracolo del dio della montagna.

«È unico! Non siamo stati in grado di documentare un altro incidente aereo, militare o civile, ad altitudini superiori a 2.400 metri in cui non ci siano state vittime», racconta un esperto. Il danno più pesante lo riportò il sottufficiale Francesco Samuele Roncone, si fratturò la dodicesima vertebra e rimase per sempre relegato su una sedia a rotelle. «Per tutta quella notte non smise di urlare di dolore. Chiese ai suoi compagni di sparargli per porre fine a quella terribile sofferenza», racconta uno dei sopravvissuti. Sul momento prevalse la confusione: dove si trovavano? Come potevano scappare da lì? Alle tre di pomeriggio, il pilota e il copilota decisero di iniziare la discesa verso un paese che si vedeva nella parte bassa della montagna, in cerca di aiuto. Il luogo di atterraggio di emergenza, Chorreras Negras, si trovava a 2.450 metri, il paese che vedevano, Jerez del Marchesado, a 1.250 metri. Con molta difficoltà, sotto la bufera, tre ore dopo arrivarono alla casa forestale di Posterillo, a 1.500 metri. In queste prime case in montagna vi abitavano una guardia forestale e un vivaista. La figlia di quella guardia, Bernarda Carrillo, che all’epoca aveva sette anni, ricorda: «stavo giocando con mia sorella quando sono apparsi due uomini. Mi hanno spaventato perché erano molto alti». I suoi genitori accolsero gli stranieri, «hanno dato loro da mangiare delle uova». Gli americani tentarono di dare le prime spiegazioni su quanto accaduto. «Il problema è che nessuno sapeva l’inglese, quindi è stata data loro una lavagna su cui disegnare quello che era successo. È così che l’hanno scoperto». La guardia  chiamò un vicino e tutti partirono per la caserma di Jérez del Marchesado.

Un salvataggio difficile.

Verso le nove di sera, gli americani misero piede in città e spiegarono la tragedia alla Guardia Civil (Carabinieri). «Presero un foglio di giornale, fecero un piccolo aeroplano di carta e lo gettarono a terra. Questo bastava. Poi li misero in contatto con le vicine miniere di Alquife, dove c’erano persone che parlavano inglese», racconta un testimone. È così che l’intero paese diede inizio a un salvataggio di vita o di morte; una dura prova contro le intemperie per salire sul luogo dell’incidente, a 2.450 metri di altitudine. Il Posterillo divenne il centro logistico improvvisato durante il salvataggio. Antonio Lorente, all’epoca 17 anni, racconta: «Un ragazzo ci disse che un aereo era caduto sulla montagna e che la gente si stava radunando per aiutare. La notte era insopportabile: pioggia intensa, neve, bufera… e freddo, molto freddo». Vestito con la stessa giacca che aveva indossato quella mattina, salì su un camion con un piccolo gruppo di uomini coraggiosi. L’idea era di salire con un veicolo, ma era impossibile. «Ci lasciò in una zona chiamata Corral Nuevo. Sbandava ed era pericoloso». Da lì partirono in cinque per l’aereo. Un’altra testimone, Maite Villalba, riferisce: «Mio padre Manuel abitava lì vicino e andò a casa a prendere dei vestiti e delle calzature adatte, ma aveva solo gli stivali da irrigazione. È andato con quelle. Ripeteva che lassù c’erano esseri umani, non animali e bisognava salvarli». Verso le undici di sera lasciarono Corral Nuevo.

Tutte le testimonianze concordano: la salita fu un incubo. «Non si vedeva niente. Per fortuna c’erano alcuni che erano già stati in montagna e conoscevano il posto. Non so se allora esistessero delle torce elettriche, ma nel paese ovviamente non le avevamo», spiega Lorente. Si orientavano con i razzi che, di tanto in tanto, gli americani lanciavano dai DC-4. A metà salita il gruppo si imbatté in un uomo coraggioso che aveva osato arrampicarsi da solo, Manuel Porcel: «sono uscito dal lavoro in miniera e mi hanno raccontato cosa era successo. Conoscevo bene le montagne, quindi ho preso una piccola coperta, me ne sono coperta la testa e ho cominciato a camminare». Riconobbe il gruppo dei cinque grazie alle voci che emettevano in mezzo alla montagna. «Non si vedeva nulla!» Insieme, i sei uomini superarono l’ultimo tratto del loro viaggio: un fosso di acque gelide nel quale caddero più volte. Per loro era come tuffarsi in una pozza di lame. Il gruppo arrivò sull’aereo alle quattro del mattino circa. Sul luogo dell’incidente c’era già un altro connazionale, che viveva sulle montagne, Manuel Peralta, e aveva raggiunto il posto da solo. Si trovarono di fronte ad un panorama agghiacciante. I marines lottavano da ore contro il freddo con coperte e caffè, ma la bufera di neve colpiva forte. Con gli spagnoli arrivò la speranza.

Incidente Picón de Jérez
Una foto dal luogo dell’incidente.

Quante donne tra i soccorsi?

Poco dopo, gli uomini decisero di dividersi in due gruppi: quattro di loro sarebbero scesi a Posterillo a informare sulla situazione, e tre di loro – Peralta, Porcel e Lorente – sarebbero rimasti con i marines. La notte trascorse nel calore del lamento. «Dormire era impossibile a causa del freddo». «Mi sono tolto i pantaloni e sono rimasti lì, congelati», rivela Lorente. Per fortuna la mattinata portò sole. «Alle sette abbiamo formato un gruppo con gli undici che stavano meglio e abbiamo informato con dei segnali che stavamo scendendo. Io stavo davanti e Lorente dietro, nel caso qualcuno cadesse», dice Porcel. Nelle ore successive furono decine i vicini, agenti e autorità che salirono sul luogo dell’incidente per aiutare gli americani e collaborare ai soccorsi. Tutti i soldati furono salvati e curati, grazie al sacrificio e all’impegno delle persone del posto che, rischiando la propria vita, con l’abbigliamento di quell’epoca, decisero di affrontare una bufera di neve per salvare chi era in difficoltà.

La storia dell’incidente aereo di Jerez del Marchesado è la storia della solidarietà umana. Non mancano affatto, lungo la Storia, esempi simili, persone che nel bisogno altrui, in naufragi, incidenti aerei, calamità naturali, eventi tragici di ogni tipo, in ogni dove e in ogni tempo, decidono di soccorrere altri con gesti di grande altruismo. Troppo spesso predomina tra gli storici una lettura negativa della Storia che mette l’accento sulla natura egoista, cruenta, violenta e bellicosa degli esseri umani. Purtroppo si tende a dimenticare o a sminuire gli eventi di generoso altruismo e fratellanza che gli esseri umani sono riusciti a mettere in atto. Eroi disposti a mettere in repentaglio la propria vita per aiutare qualcun altro. Questi numerosi eventi storici ci scaldano il cuore e ci parlano bene della nostra natura. Ora, il lettore avrà forse trovato questa storia interessante, ma si starà chiedendo cosa c’entri con gli argomenti che di solito vengono trattati qui. La risposta è semplice: dove sono le donne in questi eventi? Negli interventi precedenti è stata evidenziata la concezione che emana dall’ideologia femminista della figura femminile. Al contrario degli uomini, le donne sono pacifiche, altruiste, generose, pronte ad aiutare gli altri in gesti anche di estremo sacrificio. Si può ipotizzare che a Jerez del Marchesado la metà della popolazione fosse femminile. Le donne del luogo testimoniamo di essere a conoscenza dell’incidente, come lo erano gli uomini del paese. Quante di quelle donne decisero di salire a Chorreras Negras a soccorrere i feriti, come fecero gli uomini? Una domanda che possiamo porre per le migliaia di altri eventi storici simili avvenuti lungo la Storia dell’umanità.

soccorso incidente Picón de Jérez
I soccorsi dopo l’incidente.

Ci sono donne in ascolto?

Questi eventi, che richiedono un sacrificio estremo, ci permettono di elaborare alcune riflessioni. Innanzitutto manifestano una discordanza tra la narrazione dominante femminista, che descrive le donne come soggetti profondamente empatici, altruisti e generosi disposti a grandi sacrifici per amore altrui, al contrario degli uomini, e il comportamento messo in atto in questi eventi da entrambi i sessi, che smentisce tale narrazione. È da notare che tra i comportamenti moralmente biasimevoli e resi perseguibili penalmente non esistono soltanto le azioni violente, c’è anche l’omissione di soccorso. In situazioni di pericolo, le donne – secondo il racconto dominante, per natura generose e altruiste – pretendono che a soccorrere gli altri, rischiando, siano gli uomini. È difficile che a una donna venga rivolto un rimprovero morale, o un giudizio di condanna, per non aver aiutato qualcuno in una situazione a rischio. La donna viene assolta e, più importante, la donna si auto-assolve. Per l’uomo invece è molto più probabile che il giudizio sul suo operato sia molto più severo, tanto da parte della società come dalla sua stessa coscienza.

Poi ci sarebbe la denuncia femminista dell’invisibilità delle donne messa in atto dal Patriarcato nei racconti storici e nei libri di Storia, la pretesa di un numero paritario di presenza di uomini e di donne nei testi. Il protagonismo negli eventi storici deriva spesso dalla scelta degli attori in questi eventi. In che modo dovrebbe essere garantita una presenza paritaria nel racconto di eventi nei quali uomini e donne mettono in atto comportamenti talmente asimmetrici? Infine, un’ultima riflessione. Nei commenti di questi eventi, che richiedono grandi sacrifici, messi in atto in esclusiva da uomini, si parla sempre di solidarietà umana. Tanto gli storici come i lettori parlano di “persone”, “esseri umani” e “umanità”, dove questi gesti generosi vengono imputati a tutti e generosamente celebrati da tutti, uomini e donne. Purtroppo capita sempre più frequentemente di osservare come le gesta simili, scoperte o invenzioni che vedono come protagoniste le donne, siano celebrate come gesta, scoperte o invenzioni delle donne, uomini esclusi. In altre parole, da mezzo secolo circa i media, le notizie, i film tendono a essere impostati in questa maniera: ogni comportamento deplorabile messo in atto da un uomo riguarda l’universo maschile; ogni comportamento deplorabile messo in atto da una donna riguarda l’umanità; ogni comportamento encomiabile messo in atto da un uomo riguarda l’umanità; ogni comportamento encomiabile messo in atto da una donna riguarda l’universo femminile. “Mayday, mayday! Ci sono donne in ascolto?”



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